Mirko Boscolo, un ‘cavallo pazzo’. Il grande jazzfotografo parla con Doppio Jazz
di Guido Michelone
La storia della photo-jazz non può prescindere da un autore come Mirko Boscolo, le cui immagini di solisti e accompagnatori sono note a tutti grazie alle loro pubblicazioni su quotidiani come il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giorno, su due grosse Enciclopedie (Das Grosse Jazzbuc, I Giganti del Jazz) e su diverse testate periodiche anche oltre i patrii (le freancesi Jazz Magazine, Jazz Hot tra le altre).Pensando a lui, poi, non possono venire in menti certi scatti relativi a Ella Fitzgerald, Art Blakey, Gerry Mulligan, Amad Jamal, Miles Davis, Keith Jarrett, Michel Petrucciani. Ma è bello sentore da lui, in esclusiva per Doppio Jazz, quanto realizzato nel corso di una strepitosa carriera ancora in procito di stupire e meravigliare.
D In tre parole chi è Mirko Boscolo?
R Direi ‘un cavallo pazzo’, che ha sempre cercato di vedere la vita da una prospettiva differente ed ha sempre vissuto di passioni assolute.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R Nella primissima infanzia fu il suono del vento (la Bora) che fischiava forte mentre mi nascondevo dietro agli angoli dei fortini (ricordo lasciatoci dai nazisti) disseminati sulla spiaggia di Sottomarina di Chioggia (dove sono nato il 19 aprile 1952). Poi furono i Beatles, i Pink Floyd, Frank Zappa e tutta la musica rock.
D E il tuo primo della fotografia?
R Fu mia nonna a regalarmi una Ferrania Zephir al mio 18mo compleanno, all’ora non fui veramente in grado di capirne il potenziale ma ne fui sicuramente incuriosito.
D Quando hai iniziato come fotografo e con quali soggetti?
R Nel 1977 mi sono iscritto al corso di fotografia all’Istituto Umanitaria di Milano ma non avevo, veramente, l’idea di farne un mestiere, era piuttosto la voglia di conoscere meglio l’argomento al quale mi stavo appassionando senza avere un preciso tema da trattare; poi fu casuale il fatto che diventasse una professione che mi rapì totalmente per una quindicina di anni.
D Come e quando hai iniziato a fotografare il jazz?
R Fu durante il corso di fotografia. Un compagno di scuola che faceva anche il fattorino per Il Giorno (quotidiano milanese) e che andava a recuperare gli articoli che Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz oltre che collaboratore del quotidiano, scriveva; gli aveva regalato 2 biglietti per il concerto di Abbey Lincoln al Teatro Anteo di Milano, questo ragazzo che si chiamava Gerardo, pensò bene di darmene uno senza sapere che quel concerto mi avrebbe cambiato la vita.
D Hai avuto (o hai ancora) dei modelli o degli ispiratori tra i grandi fotografi italiani o stranieri?
R Modelli certamente ne ho avuti diversi, direi principalmente Arnold Newman e Richard Avedon per l’estetica semplice ed essenziale, Ansel Adams per la tecnica del B/N e del suo Sistema Zonale e Giuseppe Pino per il suo fantastico lavoro sul Jazz ed i suoi protagonisti sempre colti in maniera precisa ed impeccabile. Poi, da quando presi la via del mare, non ho più avuto nessun modello e nemmeno mi sono più interessato alla fotografia in generale perché la vita dello skipper mi assorbiva totalmente e non lasciava spazio a nient’altro.
D Quale è la fotografia (anche due/tre se vuoi) di cui vai più fiero e perché?
R Scusate la presunzione ma, sinceramente, vado fiero un po’ di tutto il mio lavoro di fotografo, anche le foto brutte mi rimandano a ricordi belli e quindi non riesco a valutarle criticamente, le amo per quello che sono, come i figli ma, se devo citare una foto in particolare, direi quella di Stanley Clarke che feci al North Sea Jazz Festival di Den Haag nel 1991. Si tratta di una fotografia abbastanza banale fatta “on stage” , cosa che non mi ha mai appassionato particolarmente e spesso le facevo per le esigenze della redazione. Ho sempre trovato le pose e le espressioni dei musicisti durante le performance come delle foto a cui mancava qualcosa , forse era il suono e la staticità della figura congelata spesso in una espressione quasi di dolore come se gli avessero pestato un piede. Sono sempre stato molto più attirato dai ritratti posati; quella foto, comunque si porta dietro un aneddoto curioso. Durante il vernissage di una mia mostra a Londra nel 1993 un signore me la volle comprare per 400 sterline (circa un milione di Lire) una cifra esagerata considerando che per una copertina di disco, o magari una copertina per una rivista, mi venivano date poche migliaia di Lire.
D Raccontaci in breve la tua carriera di jazz-fotografo.
R Tutto nacque da quel mio primo concerto jazz di Abbey Lincoln di cui parlavo prima, a quel concerto riuscii a scattare qualche fotografia. Fu una cosa intrigante, che mi portò a scegliere il Jazz come reportage da portare agli esami del primo anno del corso di fotografia. Un giorno che stavo mostrando il mio portfolio, fatto di fotografie scattate durante alcuni concerti (Chet Baker, Dizzy Gillespie, Dexter Gordon ed altri) al mio insegnante, Gerardo, di cui sopra, ci getta un occhio e quando va da Arrigo Polillo per ritirare un articolo gli dice che un suo compagno di scuola fotografa i jazzisti. Polillo mi invita a casa sua per visionare qualche foto e ne trattiene una decina, specificando che se le avesse per caso usate, comunque, non averi preso un centesimo (sich). Nonostante stessi “lavorando” pro bono per me fu una fortuna perché nel giro di 6 mesi da quando Polillo aveva trattenuto per se quelle foto, per me banali e prive di quella magia che ogni foto dovrebbe raccontare, nacquero 4 copertine di Musica Jazz. Fui scioccato da questo riconoscimento ma mi portò a credere in me al punto di pensare di fare della fotografia la mia professione.
D In parallelo sei anche molto noto come velista. Ma per te esistono punti di contatto tra jazz e vela?
R Non credo che ci sia correlazione tra i due elementi, anche se mi è capitato una volta di vedere il risultato che le 2 cose insieme hanno prodotto. Fu durante una attraversata dalle Canarie ai Caraibi, a bordo c’era un ospite dell’armatore, un francese molto facoltoso e prestigioso che faceva questa esperienza da totale incosciente, per la prima volta, cioè faceva la sua prima veleggiata attraversando un oceano ed in regata per giunta. La partenza fu parecchio avventurosa e l’ospite soffrì moltissimo il mal di mare, al punto che fregandomene del percorso più consono per andare da Lanzarote ad Antigua W.I. costeggiai le Canarie fino a Jerro (l’ultima isola prima del grande salto) sperando di non doverlo sbarcare. Comunque tenne botta e durante i turni di timone lo tenevo accanto a me, specialmente nei turni di notte, sparavo Miles Davis a palla. Arrivati a Falmouth (Antigua), la nostra meta, mi disse < Mirko compro una barca e facciamo il giro del mondo> Io ho sempre pensato che sia stata la combinazione mare-vento-vela e Miles a creare il miracolo. 😉
D Ci sono differenze tra fotografare un jazzista o un altro soggetto?
R Se Parliamo di ritratto non esiste nessuna differenza legata alla professione ma è piuttosto uno scontro di cervelli dove il fotografo deve fare, un poco, anche il lavoro di analista. Deve scoprire chi c’è dentro l’involucro e portarlo in superficie , oltre che inserire il tutto in una propria visione estetica.
D Dove preferisci pubblicare le tue foto: quotidiani, riviste, libri, copertine di dischi o anche on line?
R Da professionista dire: in qualsiasi posto, basta che pagano. Ma ora che professionista non lo sono più, da tanto, cerco di pubblicare qualche foto del mi archivio in posti che abbiano un certo prestigio, mostre, dischi e libri in particolare. Ovviamente qualche fotografia la faccio girare sui social, ma quello è marketing.
D Raccontaci brevemente delle tue scelte a livello di apparecchi fotografici.
R Questo è un argomento che mi ha fatto penare non poco. Quando allestii lo studio ed iniziai la professione non fui in grado di scegliere un settore merceologico specifico dove specializzarmi, in quanto la ripetitività uccideva la mia creatività e mi annoiavo subito, e quindi mi attrezzai con tutta la gamma dei formati: Nikon F/F2 per il reportage, Mamiya rb67 per i lavori di architettura in esterni e moda, poi banco ottico Sinar 9×12 – 13×18 e 20×25 per i lavori di still life oppure arredamento in sala posa. Tutto questo si portava via una bella fetta del mio fatturato e fu una delle ragioni che mi fece prendere un anno sabbatico e mi misi a vagabondare per mare. Questo succedeva nei primi anni 90, quando le agenzie di pubblicità cominciarono a chiedermi di attrezzarmi con il digitale, cosa ancora agli albori dove ogni pezzo acquistato diventava obsoleto nel giro di 6 mesi. Prima di fare questo grosso investimento presi una pausa, e quella pausa diventò la mia nuova professione: lo skipper.
D Inevitabili le domande su fatti, aneddoti, curiosità che ti sono accadute fotografando grandi jazzisti.
R A questa domanda rispondo con una anticipazione: a breve pubblicherò un libro che principalmente racconta proprio degli aneddoti e delle avventure che mi sono capitate nel mondo del jazz, con immagini che li documentano. Vi lascio nella curiosità e nell’attesa di leggerlo.
D Stabilisci anche un rapporto di amicizia o comicità con i musicisti che immortali?
R Anche qui vale il termine “scontro di cervelli”, dipende tutto dal grado di intimità che si riesce a raggiungere con i vari soggetti fotografati. Con alcuni sono nate amicizie che durano da una vita con altri un buon grado di rispetto reciproco e con qualcuno pura professionalità.
D Esiste in Italia una cultura della fotografia o siamo – come in altri settori – un po’ arretrati?
R Un minimo di cultura della fotografia direi che esiste, di mostre prestigiose se ne vedono parecchie ma non abbastanza. Per esempio: la fotografia è per gli americani la loro storia dell’arte mentre noi abbiamo radici storiche più profonde in altre arti visive e figurative e stiamo ancora decidendo se la fotografia sia arte oppure artigianato. Intanto la storia recente ha fatto di ognuno di noi un fotografo, basta avere uno smartphone in mano ed il gioco è fatto e ‘consumiamo’ centinaia e centinaia di immagini al giorno senza essere in grado di discernere tra un capolavoro ed una banale foto di un piatto di spaghetti. Abbiamo perso il piacere della contemplazione. Amen!