Kriss Corradetti

// di Guido Michelone //

In questa lunga intervista il noto jazzman di San Benedetto del Tronto racconta le proprie esperienze-artistico-professionali soffermandosi in particolare sul nuovo lavoro e su alcuni tratti essenziali della cultura musicale italiana.

D In tre parole chi è Kriss Corradetti?

R Un cercatore, un musicista, un papà…

D Vuoi parlarci in breve del tuo percorso musicale?

R Ho iniziato a suonare per caso la chitarra, perché ne ritrovai in casa una che mia madre vinse ad una lotteria di paese quando avevo circa nove anni. Passai tutta l’infanzia e l’adolescenza a suonare sui dischi che sentivo a casa, soprattutto di cantautori come De André, Guccini e De Gregori, ma soprattutto i Dire Straits e Santana. Poi ad un certo punto scoprii il blues, quello delle origini: Son House, Leadbelly, Big Bill Broonzy, e naturalmente Robert Johnson. Fu amore a prima vista e mentre avevo già iniziato a suonare dal vivo nelle prime formazioni con cui facevo mie canzoni, iniziai a studiare approfonditamente quella musica, che mi entrò nel cuore e nel sangue. Di li a poco sentii l’esigenza di saperne di più ed iniziai a studiare “seriamente”. Dapprima al CPM di Milano, poi da privatista al Conservatorio Verdi sempre a Milano, e poi in tutti i seminari e le clinics di jazz a cui potevo iscrivermi: Berklee ad Umbria Jazz, Torino Jazz, Sant’Elpidio Jazz, etc. La passione per la formazione e la continua ricerca sul suono mi portarono anche ad affrontare gli studi in musicoterapia ed in counseling, per poi arrivare alla laurea di I e II livello in composizione Pop-Rock al conservatorio di Pescara sotto la guida del M° Angelo Valori.

D Immagino che, nel frattempo le collaborazioni e le esperienze musicali da parte tua fossero le più varie…

R Lo erano anche in diversi ambiti: dalla musica per immagini, con la composizione di colonne sonore per documentari e jingle commerciali, all’arrangiamento per orchestra sinfonica, grazie alla collaborazione con il M° Valori e la sua Medit Orchestra, per la quale ho potuto scrivere arrangiamenti che sono stati eseguiti dal vivo in festival e concerti di rilievo nazionale con featuring di artisti del calibro di Morgan, Malika Ayane, Maria Pia De Vito, Serena Brancale, Rita Marcotulli. Ho poi avviato un mio studio di produzione nel quale oltre ai miei lavori collaboro con il producer Gian Flores, che scrive e produce dischi per Claver Gold, Murubutu ed altri giovani artisti della scena Rap nazionale più autentica, e con cui ho istaurato un sodalizio artistico molto interessante per l’apertura a sonorità estranee al mondo Hip Hop, come l’uso di strumenti “etnici” quali l’Oud arabo ed il mandolino ad esempio. Da sempre le musiche “del mondo” , soprattutto quello Mediterraneo, hanno esercitato una forte attrazione su di me e nel tempo le ho approfondite e studiate, oltre a suonare alcuni degli strumenti a corta più tradizionali come appunto l’Oud e lo Tzouras greco (un predecessore del bouzouki, tricordo anziché quadricordo).

D In tutto questo c’erano ovviamente anche le esperienze dal vivo…

R Sì e sono state in ambiti molto diversi, dal blues al jazz, passando per collaborazioni teatrali ed il mondo della Popular music. Ho aperto concerti di Rudy Rotta, John Mayall ed altri artisti, sono stato ospitato in programmi radiofonici condotti dal celebre armonicista Fabio Treves su radio Lifegate e Radio Rock FM. La collaborazione più recente è quella nata con il flautista Giacomo Lelli, per più di vent’anni al fianco di Goran Kuzminac ed ora stabile collaboratore di Paolo Capodacqua. Ed è proprio con Giacomo che è poi nata l’occasione di estendere la nostra formazione al quartetto col contrabbassista Emanuele Di Teodoro e con Massimo Manzi, nome di primissimo piano della batteria jazz. Questa stessa formazione è quella che appunto suona nel disco Jazzmandoit.

D E prima del nuovo album?

R Ho prodotto quattro album di miei brani originali prima di Jazzmandoit, due dei quali con l’etichetta PlayCab, e ho avuto anche il piacere e l’onore di portare dal vivo alcuni di questi con una giovanissima ed allora poco conosciuta Federica Michisanti anni fa, oggi nome di spicco del panorama jazz nazionale.

D Cosa ci dici invece del disco Jazzmandoit?

R Questo album è una sorta di rinascita, un “nuovo primo atto”, per così dire, della mia carriera musicale. Dopo anni in cui ho lavorato come chitarrista, cantautore, arrangiatore e produttore, ho deciso di dedicarmi allo studio del mandolino, esercitando su questo strumento soprattutto il linguaggio del jazz e della world music. Il fascino di un suono così spiccatamente italiano mi ha conquistato e mi ha spinto a intraprendere questo nuovo percorso musicale e artistico, nella speranza di poter dare a questo strumento meraviglioso e alle sue caratteristiche espressive l’attenzione che merita, attenzione di cui gode per lo più nella musica classica e in quella napoletana. Poiché la mia scelta è stata guidata dal cuore, per lo stesso motivo ho chiesto ai musicisti di suonare accordando gli strumenti a 432Hz. Al di là delle teorie legate agli effetti benefici di questa intonazione, che da tempo studio ed approfondisco, il mandolino stesso ha scelto di suonare così, rispondendo in modo più morbido e dolce alla pizzicata dei miei plettri.

D In cosa, secondo te disco si distingue Jazzmandoit?

R Direi per il peculiare ruolo da protagonista del mandolino appunto, con l’intento di esaltare la voce dello strumento italiano per eccellenza all’interno dei territori sonori dello swing e del jazz, come già avviene da tempo in altri Paesi. “Jazzmandoit” comprende nove tracce originali di mia composizione e cinque tributi a brani famosi della musica italiana, scelti per la loro peculiare consonanza con il linguaggio degli arrangiamenti e con lo stile generale del disco, con uno sguardo particolare alla musica swing scritta nel nostro Paese durante il periodo compreso tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso. Un omaggio particolare poi è quello che ho voluto fare a Tullio De Piscopo, con un mio arrangiamento di “Libertango”, celebre composizione di Piazzolla in cui fu proprio De Piscopo a suonare la batteria.

D C’è una nota nota costante che attraversa il disco?

R Certo, è la propensione per la melodia, da cui deriva la scelta di omaggiare, tra gli altri, Nino Rota con il celebre tema di Amarcord e Pino Daniele con una versione strumentale della sua poeticissima E cerca ‘e me capì.La successione dei brani è pensata come un viaggio sonoro che attraversa i territori del jazz, le sonorità gipsy e manouche, i colori latineggianti, il blues acustico delle origini e poi risale gradualmente verso il ritorno alla forma canzone del jazz e alle sue sonorità tipiche, fino al commiato dell’ultimo pezzo, unica traccia in cui ho usato anche anche la voce, utilizzata come uno strumento. 

D Chi hai chiamato nell’album?

R Insieme a me (mandolino, chitarra classica, gipsy ed elettrica, voce), in Jazzmandoit hanno suonato il fautista Giacomo Lelli (già accanto a Paolo Capodacqua, Goran Kuzminac, Clive Bunker e Flavio Oreglio), il giovane e talentuoso contrabbassista Emanuele Di Teodoro (Max Gazzè, Antonella Ruggiero, Rossana Casale) e il batterista Massimo Manzi, nome di primo piano della scena jazz italiana. Oltre alla scrittura e agli arrangiamenti dei brani, ho curato anche le riprese audio di tutti gli strumenti, il mixaggio e il mastering.

D Come definiresti la tua musica?

R Una continua ricerca della verità.

D Quanto è importante l’improvvisazione nel tuo sound?

R Amo improvvisare, soprattutto dal vivo, ma al tempo stesso sento sempre l’esigenza di tutelare l’equilibrio delle parti, e se trovo che la melodia da sola possa essere sufficiente ad esprimere la bellezza di una composizione, non faccio fatica a fare un passo indietro e a lasciare spazio alle note del compositore. È il caso ad esempio della mia versione del brano di Pino Daniele E cerca ‘e me capì.

D Possiamo parlare di te come un jazzista (o jazzman)? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Devo essere sincero: non mi sono mai sentito un jazzista (o jazzman), come non mi sono mai sentito “qualcosa” in particolare. Faccio molta fatica a stare dentro un’etichetta, lo puoi vedere già nel mio percorso musicale. Sono onnivoro, ho una sete insaziabile di conoscenza e sperimentare sonorità diverse e strumenti diversi è sempre stata una costante della mia vita musicale. La questione dei generi l’ho sempre sentita come un affare più da commercianti che da musicisti. I grandi compositori del passato scrivevano Musica, non pensavano a generi musicali, il pensiero è sempre stato rivolto al messaggio ed alla ricerca, non al nome da mettere in catalogo per ascrivere una composizione a questo o quel settore merceologico. Questa è una cosa che è venuta dopo, con la massificazione della musica e l’industrializzazione della discografia.

D E per quanto riguarda la parola ‘Jazz’?

R La domanda è molto impegnativa ma quello che mi sento di dire è che questo termine ha assolutamente senso se si pensa ad un percorso culturale storico e sociale che ha prodotto determinate espressioni artistiche, ed in seno a questo ragionamento certamente anche oggi ha senso parlare di Jazz, poiché la musica si è evoluta ma i caratteri distintivi di una modalità espressiva caratteristici del Jazz sono certamente vivi e danno frutti eccezionali. Dobbiamo certamente riconoscere anche che spesso di questa parola si abusa per cercare di dare un nome ad un contenitore mediatico che possa essere di facile comprensione per il pubblico, anche quando in quel contenitore poi ci finiscono espressioni artistiche che forse col pensiero Jazz non hanno più molta vicinanza. Penso soprattutto ai cartelloni di vari festival e rassegne del settore.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Ma certamente sì, se penso ai lavori eccellenti di artisti fortemente ancorati alla nostra tradizione, ad esempio Gianluigi Trovesi. Al tempo stesso credo che si potrebbe osare di più nella ricerca e riscoperta delle nostre radici culturali e la possibilità di trovar spunti di incontro con i linguaggi del jazz e delle musiche audiotattili. Non possiamo neanche dimenticare del nostro essere Europei, e di quanto questo elemento della nostra cultura influenzi il nostro approccio al fare musica, soprattutto nella composizione

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Mi sembra che da noi in Europa ci sia una maggiore propensione alla contaminazione ed alla ricerca, all’andare oltre i confini del sentiero tracciato, che negli Stati Uniti, per varie motivazioni di ordine storico, sociale e culturale, ha sempre subito un maggiore freno. Spesso ho chiesto a musicisti d’oltreoceano che ho avuto la fortuna di incrociare nel mio percorso, che effetto gli facesse suonare in Europa, e tutti indistintamente rispondevano di sentirsi più liberi di suonare ciò che sentivano, trovando un pubblico più attento ed aperto all’ascolto. 

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Beh, credo che la musica in generale non possa fare a meno di fare i conti con i temi essenziali della nostra vita, Jazz compreso. Un ruolo politico e di forte connotazione sociale il Jazz l’ha avuto sin dalle origini, manifestandosi in maniera più o meno evidente a seconda dei vari musicisti. Personalmente la musica troppo “ego-diretta” la trovo meno significativa di quella per così dire “impegnata”, nella quale almeno si percepisce che l’autore cerca di rispondere a delle domande che si è posto su temi importanti. E’ chiaro che la musica strumentale ha più difficoltà di quella cantata di esprimere concetti forti e oggettivamente trasmissibili riguardo a tematiche del genere, anche se spesso basta un titolo o la genesi di un disco per dichiarare un pensiero politico o filosofico. Penso ad esempio a Don’t buy Ivory anymore di Henri Texier piuttosto che a Strange Fruit di Billie Holiday.

D Come vivi il jazz in Italia anche in rapporto alle esperienze di molti altri Paesi?

R Premettendo che come dicevo mi sono sempre state strette le etichette ed i “circoli”, per cui non ho mai particolarmente frequentato la scena Jazz nazionale, vivendola serenamente insieme a quelle di altri ambiti musicali, lamento che rispetto alla quantità e qualità dell’offerta di proposte artistiche e musicisti nazionali, la scena Jazz del nostro Paese (mi riferisco al panorama dei festival) soffra ancora troppo di “esterofilia” e sudditanza culturale, soprattutto a tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, ed anche di una certa pigrizia nella compilazione dei cartelloni delle rassegne, in cui si tende a dare molto spazio a pochi nomi molto noti, a discapito di tantissimi artisti eccellenti ma ancora poco conosciuti. Questo genera un clima di mistificazione della figura del musicista, troppo legata al parametro del successo personale, e di conseguenza un differente qualità del rispetto di questa figura, già scarsamente considerata nel nostro Paese. In Nazioni a noi vicine è molto diverso, dalla Francia all’Est europeo, per non parlare del nord Europa.

D Non trovi che – a differenza di quanto fai tu – sono ancora pochi i jazzisti a inserire canzoni italiane nel proprio repertorio?

R Sì, sicuramente è un riflesso di una certa difficoltà nell’uscire da cliché culturali per i quali la nostra musica viene percepita come inferiore rispetto a quella prodotta altrove. E’ un tratto che purtroppo ci contraddistingue, non solo nella cultura musicale, quando invece la consapevolezza delle proprie radici culturali è fondamentale per apportare poi qualcosa di nuovo ed autentico all’incontro con altre culture. Già sono attraversando il mare davanti casa mia ed arrivando in Croazia o in Grecia trovi una capacità di mantenere vive le proprie tradizioni e di frequentare i linguaggi internazionali al tempo stesso, che da noi si fa fatica a ritrovare. La canzone italiana ha una tradizione di tutto rispetto e dovrebbe essere territorio di confronto musicale pienamente condiviso già nelle jam session, al pari dei più celebri e praticati temi d’oltreoceano. 

D Cosa ne pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Come scrivevo sopra soffriamo di endemica esterofilia, da noi “l’erba del vicino” è davvero sempre più verde, e facciamo fatica ad avere un confronto sereno con le nostre radici, con lo spauracchio sempre presente del peccato di eccessivo nazionalismo quando guardiamo alla nostra cultura ed alla sua grandezza. L’autorevolezza delle nostre espressioni culturali va bene al “mainstream” se si cristallizza in un passato indiscutibile (vedi il nostro Rinascimento) o se si declina nei format dell’espressione folkloristica, vedi le varie manifestazioni dedicate alle musiche del meridione ad esempio. Ma così si riduce tutto ad una cartolina e si perde di vista la vitalità della cultura che non ha mai una forma definibile nel momento in cui nasce. Fortunatamente c’è molta vita sotto la superficie, in letteratura come nel cinema, in musica come nel teatro, una vita che pulsa nei piccoli circoli culturali, nelle produzioni cinematografiche indipendenti, nei club più fuori mano come nei piccoli teatri di provincia. Sta a noi andarli a cercare, lasciandoci sorprendere di quanta bellezza abbiamo intorno a noi, e magari lasciando a se stessi i circuiti (o meglio direi i corto-circuiti) più noti, fatti di mode e di stanche abitudini commerciali.

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