Pier Benedetto Francese

// di Guido Michelone //

Un fitto dialogo con un importante esponente della diplomazia italiana, ora in pensione, che nella propria vita inizia ad amare il jazz fin da ragazzino, cominciando a collezionare libri e dischi sull’argomento e ora lasciandosi trascinare dai ricordi che costituiscono – per noi – un esempio significativo per capire come il jazz sia visto dall’altra parte della ‘barricata’: non solo musicisti e critici, ma anche raffinatissimi ascoltatori.

D Piero, come nasce la tua passione per il jazz?

R Nasce dal fatto che avevo una madre appassionata di musica, suonava il pianoforte, comprava dischi a 78 giri di svariati generi, andava ai concerti, in particolare quelli del Concorso Viotti creato a Vercelli nel 1959. Mia madre mi portò a Milano, da piccolo, a un concerto di Louis Armstrong e fu la mia prima esposizione al jazz o per lo meno quella che mi rimase impressa fino a oggi, come sensibilità personale. Da allora ho iniziato una modesta raccolta di dischi, prima i 78 giri poi gli EP (extended play) a 45 e 33 giri, che poi si è sviluppata nel tempo, arrivando ovviamente a comprendere i vinili LP (long playing) e negli anni Ottanta-Novanta pure i CD (compact disc).

D Ti ricordi quali furono i primissimi dischi da te acquistati?

R Avevo in casa un discreto numero di 78 giri dei miei genitori, mentre quando ho iniziato io, era già l’era del microsolco e della stereofonia. Il primo in assoluto potrebbe essere un LP proprio di Armstrong, per la forza dell’espressione sia con la tromba sia al canto. Mi sono poi indirizzato a ritroso, verso le origini del jazz, il cosiddetto traditional di New Orleans, nutrendo un’autentica passione per il dixieland dell’Original Dixieland Jazz Band che contava due italiani, Nick La Rocca e Tony Sbarbaro. Altra mia passione fu il cornettista Bix Beiderbecke, scomparso precocemente, che negli anni Venti era la risposta bianca al jazz nero e creolo di Armstrong, anche se pare che tra i due non vi fosse competizione, ma grande reciproca stima.

D Compravi i vinili nella tua città?

R Sì, negli anni del Liceo abitavo a Vercelli e mi rifornivo in un negozio di dischi e grammofoni (che non esiste più da decenni) sul corso Libertà. Poi quando con i genitori andavo a Milano o a Torino non mancava mai una puntata nei migliori negozi del centro, meglio forniti che in provincia, perché nelle grandi città arrivavano anche i dischi d’importazione dall’America e, anni dopo, persino dal Giappone, dove le ristampe erano curatissime persino dal punto di vista tecnologico. Passati i diciott’anni, ottenuta, grazie alla patente, l’autonomia di circolare da solo o con amici in automobile e soprattutto con gli studi intrapresi all’Universitá di Torino, l’indipendenza di collezionista si è allargata notevolmente.

D Quale clima artistico-culturale si respirava in provincia? Si era aperti al jazz?

R Fino ai primi anni Sessanta c’era ancora molta chiusura verso l’estero. Più che il jazz, furono i Beatles e i gli altri gruppi inglesi a gettare uno sguardo cosmopolita sul mondo con una musica che aveva le radici nel blues afroamericano.

D In effetti il primo rock and roll in Italia resta un fenomeno marginale, effimero e modaiolo.

R Gli studenti all’epoca si interessava alle canzonette italiane oppure alla musica classica e operistica oppure, come me, al jazz in tutte le sue varianti; dopo l’iniziale abboffata dixieland, la mia prima passione per il moderno si chiamò Gerry Mulligan, quindi conobbi la forza irruente del bebop grazie ai dischi di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, Thelonious Monk. Trovavo già interessante il primo Miles Davis, quello della collaborazione con Gil Evans, delle incisioni del 1949 e 1950 riunite poi nell’album The Bird Of The Cool della Capitol, un disco che mi ha preparato a seguire tutta la scena posta-bop.

D Ma di fatto quali erano le occasioni per un giovane di avvicinarsi al jazz?

R Per me era soprattutto il negozio prediletto in via Pietro Micca, dove cominciavo a comprare molti dischi. Nel periodo compreso tra i miei sedici e vent’anni avevo anche un paio di amici con i quali ci divertivamo a esercitarci su qualche strumento: io alla tromba, altri due al clarinetto e al trombone: insomma un’autentica front line nel genere traditional.

D Altri stimoli jazzistici?

R La mia cultura collezionistica deriva da un gruppo di amici che a Vercelli aveva fondato un jazz club per riunirsi ad ascoltare i dischi che ciascuno portava dopo averli magari attesi a lungo dal negozio sul corso oppure da quelli meglio forniti di Torino e di Milano. Sentire musica insieme era spesso il pretesto di vivaci discussioni con abili parlatori, anche perché i membri del jazz club erano quasi tutti universitari o neolaureati: io invece ero la mascotte del gruppo, essendo ancora liceale.

D Quando inizia la tua famosa collezione che arriva al top con la straordinaria cifra di venticinquemila dischi di vario formato?

R Comincia in coincidenza con la mia carriera lavorativa professionale, in diplomazia, all’estero, dapprima nella Londra degli anni Settanta, quando ho modo di allargare la mia campagna di acquisti. Tuttavia l’espansione straordinaria parte a New York negli anni novanta, perché lì avevo trovato grandi, bellissimi negozi di dischi che frequentavo assiduamente. Avevo anche imparato a fare acquisti per corrispondenza, maniera vantaggiosissima per entrare in contatto con i migliori record store di tutto il mondo.

D Cosa acquistavi in particolare?

R Collezionavo di tutto. Non solo jazz – che per me resta il genere principale – ma anche musica classica (soprattutto del Novecento che amo molto), rock sperimentale, tradizioni etniche di tutto il mondo. Disponendo già di alcuni 78 giri che erano dei miei genitori, mi stavo appassionando sempre più alla versione archeologica del collezionismo. In quegli anni da un lato c’era persino una fiera dei 78 giri che visitavo, dall’altro riuscii ad acquistare alcune collezioni private dei primi dischi jazz, al punto che sono arrivato ad avere millecinquecento esemplari originali in shellack (la gommalacca in scaglie usata per fabbricarli) tutti di jazz, dalle origini fino al bop e al cool compresi.

D Invece per quanto riguarda la nuova velocità – 33 giri 1/3 – brevettata nel 1948, a quanti pezzi ammontava la tua collezione?

R Quando raggiunsi il mio apice, alla fine 2010, possedevo all’incirca ventimila vinili tra EP (formato usato ancor oggi sia pur rarissimamente) e LP (di cui apprezzavo così tanto le copertine da cercare i libri sull’argomento che in lingua inglese non mancavano fin dagli anni Ottanta).

D Poi, dal 2011, hai smesso di comprare o meglio di collezionare dischi. Perché?

R È strano, è come se non avessi più avuto tempo per ascoltare musica; nell’ambito familiare – mi ero sposato da poco – inoltre non vi era alcun interesse per la musica che piaceva a me: il jazz e anche la classica contemporanea (perché non amo il romanticismo ottocentesco).

D Dunque la tua collezione di dischi jazz coincide con lo sviluppo della tua carriera diplomatica?

R La collezione diventa grande dopo la lunga esperienza all’Ambasciata di Indonesia a Jakarta e subito dopo il lavoro all’ONU a New York, quindi parliamo di fine anni novanta; ero ancora a Manhattan quando, a pochi isolati di distanza, è accaduto l’arrivato alle Torri Gemelle, appena prima che mi incamminassi per andare a lavorare. È la collezione mi seguiva, si spostava con me a Berna via Londra e in via definitiva nella casa paterna di Vercelli, dove la sistemai con cura, in varie librerie acquistate all’Ikea.

D Torniamo agli anni di New York: seguivi la scena jazz dal vivo?

R Frequentavo abitualmente il Vanguard il locale più prestigioso della città – anche per i molti dischi live registrati, come quelli stupendi di John Coltrane – ma amavo molto anche un piccolo jazz-club sulla Broadway nel lato Nord, dove andai tre sere dopo l’attentato dell’11 Settembre. Ricordo ancora che era un venerdì, il 14 settembre 2001, andai con amici e trovammo un solo tavolino occupato rispetto al tutto esaurito che il locale faceva nei periodi normali. La serata aveva in cartellone il quintetto del pianista Cesar Walton, ma vista la dimensione molto ridotta del pubblico, anziché suonare per noi, il gruppo decise di suonare per se stesso, provando e riprovando diversi brani, come fosse in studio, dandoci una visione privata di come andava componendosi un pezzo jazz per gli ascoltatori. E fu il concerto più interessante che abbia sentito.

D Bello sentire quest’aneddoto che si staglia in mezzo alle decine di grandi jazzisti che hai potuto ascoltare da vivo. E al proposito ti chiedo ora quale sia il concerto più strano che ti sia mai capitato di ascoltare?

R Senza dubbio quello del 1959 a Torino al Teatro di Torino Esposizioni dove c’erano musicisti assai noti che suonavano non tutti assieme, bensì separati: in altre parole i vari Lester Young, Bud Powell, Thelonious Monk facevano ciascuno i propri pezzi, alternandosi vicendevolmente. Quando Bud Powell apparì in scena, entrò barcollando, e si accasciò (era evidentemente drogato) lo sollevarono, e tirarono fuori e intervenne subito a sostituirlo Thelonious Monk. Come ben sai, queste situazioni in America erano frequenti per musicisti come Charlie Parker che in certi momenti non riusciva non solo a finire, ma nemmeno a iniziare un concerto.

D Quando hai iniziato a interessarti alle quotazioni dei dischi rari che oggi vengono battuti alle aste come fossero quadri del Rinascimento?

R Da sempre e ancor oggi sono informato e devo dirti che non è il jazz, ma è il rock ad avere i pezzi più costosi: ad esempio nel 2012 viene trovato un raro 45 giri dei Quarrymen, un sestetto skiffle e rock’n’roll in cui militarono, giovanissimi, tre quarti dei Beatles, ossia Lennon, McCartney, Harrison. John “Duff” Lowe – uno degli altri sei Quarrymen – era il proprietario di questo prezioso oggetto, valutato dalla britannica Record Collector in 200.000 sterline. Il lato A presenta That’ll Be The Day classico omaggio agli americani Buddy Holly & The Crickets con John Lennon alla voce principale, mentre George Harrison suona la chitarra solista e Paul McCartney canta le parti armoniche in uno stile poi tipico dei Beatles della beatlesmania e della british invasion.

D So anche di un acetato (disco di prova con scritte a mano) di Elvis Presley valutato per una cifra a cinque zeri, ma per il jazz penso che la questione sia del tutto diversa.

R Certo, bisogna anzitutto distinguere tra ristampe e originali: ad esempio di Kind Of Blue, il disco jazz forse più celebre al mondo, si possono trovare, oltre il cd a sei euro, il vinile ai mercatini tra i dieci e i trenta euro, ma si tratta di ristampe, perché una copia dell’originale americano del 1959 oggi s’aggira attorno ai mille dollari.

D Vero o no fra l’altro che proprio agli anni cinquanta con il cosiddetto hard bop sia interessato il collezionista jazz di oggigiorno?

R Vero. Pensa al sassofonista Hank Mobley e al suo album omonimo del 1957 per la Blue Note, se non erro il dodicesimo a suo nome: uscito con una tiratura imprecisata (dicono fra le 300 e le 1000 copie) mai ristampato, all’inizio degli anni 2000 valeva cinquemila dollari, ma un collezionista nel 2015 ne ha comprata una copia per più del doppio, ovvero undicimila dollari. Tuttavia il mercato del collezionismo di rarità nel jazz arriva al massimno ai quattro-cinquemila euro solo per alcune decine, forse qualche centinaio di titoli.

D Per aumentare la tua collezione avevi un negozio di dischi preferito o privilegiato?

R Sì, Black Saint in via Vincenzo Monti a Milano, negozio appartenuto al caro Giacomo Battistella, scomparso nel 2017 a soli 76 anni. Era partito dal basso, facendo il commesso alla Rinascente nel reparto dischi, che gli servì moltissimo per aprire una propria attività commerciale, che, unita a una conoscenza storica, tecnica, artistica del jazz fece produrrà il più bel negozio di dischi che io abbia mai visto (e ne ho visitati tanti nel mondo). Black Saint – aperto nel 1976 e presto dedicato esclusivamente al jazz – era per molti anni una delle principali fonti della mia collezione, perché risultava eccellentemente fornito, oltre essere un locale molto elegante, frequentato dall’élite milanese e da jazzofili di tutto il mondo grazie alle vendite per corrispondenza, antesignane dell’e-commerce attuale con la differenza che rispetto ai negozi virtuali, qui trovavo un Battistella che consigliava e giudicava da vero esperto.

D Cosa accade quindi alla tua collezione dopo il 2010?

R Dal 2011 con Battistella inizia l’esperienza di ciò che noi chiamammo Jazz Laboratory – e che ancora oggi con un paio di giovani amici denominiamo Il Laboratorio – in cui nella mia casa paterna ascoltavamo e classificavamo la qualità dei dischi della collezione. Un lavoro certosino, fatto di posti colorati inseriti come etichette con il prezzo (la valutazione in dollari secondo rigorosi parametri) su ogni copertina, dai cinque dollari in su. Va tenuto presente che per i più sofisticati collezionisti – i Giapponesi in primis – i criteri per la classificazione commerciale di un disco sono almeno dieci: la somma di questi decide se un vinile può valere venti, duecento o duemila dollari.

D Ricordo che mi avevi detto che possedevi l’opera omnia di Stan Kenton o in altre parole è il jazzista di cui forse avevi il maggior numero di dischi, giusto?

R Ho messo assieme una grossa collezione di 78 e 45 giri, di EP e LP (e anche di CD) di Kenton, un pianista, ma soprattutto direttore d’orchestra che fin da ragazzo trovavo molto interessante per la capacità di collegare il colto al popolare. Fu un signore che faceva parte del Jazz Club Vercelli fondato da Duccio Ravera a trasmettermi la passione di Kenton, la cui orchestra io personalmente trovavo più avanguardista rispetto a quella di Woody Herman più classica, che però aveva i celebri sassofonisti detti Four Brothers e che poteva vantarsi di aver eseguito per prima l’Ebony Concerto di Stravinsky. Kenton risponderà con City Of Glass, composizione di Graettinger, antesignano della Third Stream Music teorizzata da Gunther Schuller.

D Quando mi hai mostrato la tua collezione ancora integra molti anni fa, ho notato la completezza in ogni capitolo di storia jazzistica: sei partito dall’Original Dixieland Jazz Band ma fin dove sei arrivato?

R Fin dove era possibile perché da sempre sono appassionato di tutto il jazz, compresa l’avanguardia, la sperimentazione, l’elettronica. Mi accorgevo con il passare degli anni di maturare una differenza radicale di gusti artistico-musicale rispetto alle tante persone che il jazz mi fece incontrare.

D E a proposito di persone più o meno legate al jazz, c’è qualcuno che ricordi volentieri?

R Il Professor Nino Marinone, nostro insegnante di greco e latino al liceo, poi grande luminare all’Università degli Studi di Torino. Si occupava di lettere antiche ma non era un passatista, al contrario! Suonava il clarinetto, ascoltava jazz perché era uno aperto, faceva parte della sua cultura di uomo contemporaneo. Negli anni cinquanta (e sessanta) c’era ancora il piacere, da parte di noi giovani, di essere guidati da una persona più matura, tra le figure più interessanti della cultura vercellese, come anche Duccio Ravera, poi farmacista e pioniere dell’omeopatia o come Don Cesare Massa, insegnante di filosofia, animatore di cineforum che in età adulta prese i voti, diventando un insigne teologo.

D Nella tua collezione figurano anche dischi di jazz europeo?

R Certamente. Quando abitavo in Svizzera compravo anche i vinili della scena locale (assai ben rappresentata dal dixieland), mentre, conoscendone il valore artistico, acquistavo anche i dischi polacchi, in particolare quelli dell’etichetta Polish Jazz. Ero riuscito a collezionare anche un buon numero di vinili dell’ex Yugoslavia, senza ovviamente contare nazioni come la Francia e la Gran Bretagna, per non parlare dei paesi scandinavi dove il jazz è di casa. Oggi invece mi colpisce la ricchezza espressiva del jazz italiano, benché non possegga conoscenze profondissime.

D Oltre i dischi, hai collezionato i cosiddetti memorabili sempre inerenti al jazz?

R Avevo calendari, fotografie, poster, ma niente di sistematico. Possedevo invece moltissimi libri sul jazz, soprattutto in lingua inglese anche per il semplice fatto che non venivano tradotti in italiano, poiché ritengono il libro importante quasi quanto il disco per arricchire i propri saperi, per poter apprezzare la musica, per riconoscere l’importanza della conoscenza storica anche nel jazz. Per me la lettura – tra biografie di jazzisti e analisi di tendenze e correnti come lo swing o il bebop – accompagnato l’ascolto dei dischi rendendola più dilettevole.

D In Italia, secondo te, è maturata un’autentica cultura jazzistica?

R Ricordo che i primi anni della rivista «Musica Jazz», che uscì per la prima volta già nel 1945 appena finita la guerra, erano pionieristici con un pubblico di lettori esiguo o per meglio dire elitario. Poi la conoscenza del jazz è andata allargandosi nei decenni successivi, soprattutto dai settanta-ottanta in poi, perché la conoscenza della lingua inglese – utile per leggere le note di copertina dei dischi o per conversare con i musicisti stranieri a fine concerto – si è molto diffusa e dunque ha reso più universale e comune l’attenzione e il sapere verso questa musica. Ciò non solo in Italia ma nei paesi europei più diversi, benché l’uso dell’inglese fosse già molto diffuso ad esempio in Olanda o in Scandinavia.

D Dove invece non esistono problemi di lingua è la Svizzera che ne ha quattro ufficiali, anche se dalla mia esperienze di frequentatore di festival a Locarno e a Montreux parlavano tutti l’american english.

R Anche in Francia ormai l’inglese – e talvolta persino lo slang afroamericano – è la lingua franca del jazz. E tornando alla Svizzera si tratta di un paese molto vivace per quanto riguarda il jazz, a partire da un’istituzione come la Jazz Swiss Orchestra per arrivare a uno degli ormai classici festival, il Montreux che tu stesso hai citato e dove fin dal 1967 arrivavano moltissimi artisti internazionali. Con gli anni il Montreux Jazz Festival si è forse troppo allargato nell’inglobare altri generi (rock, soul, blues, pop, bossa nova e altro), anche se poi in Svizzera esistono tante manifestazioni minori sempre nello specifico del jazz, un po’ come avviene oggi in Italia, dove in estate non c’è località turistica al mare o ai monti, che non abbia il proprio festivalino jazz.

D Hai notato particolari differenze tra il tipo di ascoltatore europeo e quello americano?

R La ricchezza dell’America, anche da un punto di vista quantitativo, si vedeva dalle fiere dei dischi, molte dedicate solo al jazz, ma il migliore negozio l’ho trovato a Milano, il Black Saint che ho già citato, senza nulla togliere a Millerecords di Roma, che ora ha chiuso. Credo altresì che vi siano più appassionati di jazz in Europa dotati di un certo spessore culturale, perché la competenza storica sul jazz è assai più diffusa da noi. Negli Stati Uniti per lavoro ho conosciuto molta gente, ma nessuno era esperto o amante del jazz. Mentre da noi il jazz resta magari un fatto elitario a livello di numeri, ma che attraversa tutte le classi sociali, da loro non era così ed era limitato a certi ambienti.

D Oltre la musica, il jazz ha un forte impatto visivo grazie alle copertine dei dischi; tu, da autentico conoscitore, quale preferisci?

R Mi viene subito in mente una Billie Holiday disegnata per una collezione di Norman Grantz. Oppure il connubio tra grafica e fotografica alla Blue Note Records grazie a Francis Wolff o ancora i ritratti in bianco e nero per i 33 giri della ESP Records. Una volta a Pittsburgh andai a visitare l’Andy Warhol Museum dov’era in corso una bellissima mostra dal titolo Records Cover Art, dove era appese ai muri le più belle e famose copertine suddivise per casa discografica. E grande spazio era riservato a David Stone Martin della CLEF che per me resta il miglior illustratore di dischi jazz EP e LP.

Pier Benedetto Francese

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