Gianfranco Nissola intervista Francesco Cataldo Verrina su jazz, libri e dintorni
// a Cura della Redazione //
Prossimo ai novant’anni Gianfranco Nissola – per tutti Gian – da qualche mese con problemi alla vista, è un pioniere del jazz a Casale Monferrato e in buona parte dell’Alessandrino, dove dopo un’esperienza giovanile come trombettista, si dedica soprattutto alla divulgazione del jazz, facendo parte del prestigioso Jazz Club di Valenza (attivo dal 1954 ininterrottamente) e insegnando la storia della musica all’Università Popolare casalese. Oltre numerosi articoli su testate locali ha al proprio attivo due libri su Miles Davis, uno su Uri Caine e un altro sul Festival di Newport.
D Ora, così, a bruciapelo chi è Francesco Cataldo Verrina
R Volendo giocare con le parole, un guerriero mercenario senza terra e senza padroni, ma con l’inclinazione al volere essere un eterno tribuno della plebe, sempre disposto a prendersi a cuore la causa del più debole, nemico dei potentati economici e editoriali, dei nepotismi e dei vassallaggi, un calabrese testardo refrattario al compromesso che ha fatto tutto da solo, senza padrini e sponsor di varia natura: la radio per mestiere, la scrittura come passione ed esigenza dello spirito, il copy-writing pubblicitario per motivi di sopravvivenza.
D Mi parli brevemente del tuo ultimo libro?
R. L’ultimo libro che ho pubblicato in ordine cronologico riguarda un personaggio non molto conosciuto in Italia e spesso ignorato dalle cronache jazzistiche italiche. Parlo di Jackie McLean che, personalmente, considero il più grande altoista dopo Charlie Parker, colui che, pur avendo avuto il rapporto più diretto e personale con Bird, è riuscito a staccarsi subito dal ricalco calligrafo e manieristico del suo mentore, su cui hanno prosperato tanti altri contraltisti osannati dalla storiografia del jazz moderno, quasi sempre più di Jackie McLean.
D Mi racconti ora il tuo primo ricordo di critico jazz?
R Ce ne sarebbe uno ufficiale, forse il primo, legato ad un mio articolo sui Weather Report pubblicato dal Corriere Dell’Umbria. Siamo nei primi anni Ottanta e, all’epoca, mi occupavo di musica pop-rock. Invece, ciò che ritengo più rilevante, è un’intervista a George Benson durante Umbria Jazz, che riuscii a realizzare grazie a Franco Fayenz che mi aveva preso in simpatia. Siamo sempre negli anni Ottanta, ero molto giovane e compresi che gli Afro-Americani hanno un modo completamente diverso d’intendere la musica, il jazz e lo show business, non hanno sovrastrutture culturali, separatismi mentali o visioni accademiche in merito allo scibile sonoro, per cui rock, jazz, pop o classica hanno la medesima importanza e dignità di esistere.
D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare uno scrittore di argomenti jazzistici?
R Avendo scelto di non fare il musicista, pur avendo studiato un po’ il pianoforte, ho sempre raccontato la musica facendo suonare le parole e i dischi: l’ho fatto da DJ in radio e da scrittore e critico su giornali, fanzine, libri, riviste e web. Mi sono occupato perfino di opera lirica. Il jazz è stata una conseguenza, avendo sentito l’esigenza di staccarmi da pop e dal melodismo cantato. Negli ultimi vent’anni per me esiste quasi solo ed esclusivamente la musica strumentale: si matura e si cambia. Soprattutto, al jazz ci sono arrivato in maniera «impura», partendo, in primis dal soul-funk, quindi dalla fusion, di cui negli anni Ottanta ero un incallito cultore. All’epoca per me il massimo erano i Weather Report di Zawinul e Shorter e, in Italia, il Perigeo e Napoli Centrale et similia. Inoltre il jazz mi sembrava un territorio più ricco di storia e di storie, connesse alla politica, ai cambiamenti ambientali e sociali, ma soprattutto il jazz si legava bene ai miei studi universitari di antropologia e sociologia, in cui mi ero appassionato alla cultura e alla musica afro-americana, che oramai studio e analizzo da quasi quarant’anni, a vari livelli.
D Ti consideri più musicologo, critico, storico del jazz o altro ancora?
R. Possiamo dire un incrocio tra un critico prêt-à-porter – perché i miei scritti sono molto a portata di mano e facilmente spendibili – e un storico del jazz mai pago che continua a studiare tutti i giorni senza mai sconfinare in situazioni eccessivamente auliche e accademiche. I miei libri pur evidenziano un certa sostanza (un complimento fattomi da un discografico di recente), tendono alla narrazione semplificata. Tutto questo lo devo alla radio e alla pubblicità, un settore in cui continuo ancora ad operare, dove tutto deve essere immediato e facilmente fruibile. Il termine musicologo, in ambito jazz, in Italia lascia il tempo che trova. Anche perché si scopre che taluni personaggi indicati come tali, certi professorini con le cattedre assegnate con il pallottoliere politico, sanno appena leggere il pentagramma. Per intenderci, non sarebbero in grado di fare un’analisi dettagliata della frase sonora nota per nota, accordo per accordo, alla Gunther Schuller.
D Ma cos’è per te la scrittura di un libro sul jazz?
R La scrittura è di per sé una catarsi, un atto liberatorio ed, al contempo, un arricchimento, in primis, per me stesso e poi il desideri di raccontare e divulgare che, come ho spiegato, nasce da lontano. Non sono mai mosso dall’intento di cambiare la storia, al massimo di volerla raccontare a parole mie.
D Quali sono i metodi che associ al momento di concepire e poi scrivere un libro?
R. Ho più volte dichiarato che i miei libri si basano essenzialmente sul racconto sonoro dei fenomeni, quindi partono tutti da una profonda analisi delle discografie dei musicisti coinvolti in ciò che scrivo, intorno alle quali ruotano elementi biografici e ambientali che servono da collante. In ogni caso, il nerbo del plot narrativo è dato sempre dal contenuto dei dischi.
D Come scrivi: quaderno, bloc-notes, computer, tablet o altro?
R In passato ho usato carta e penna, quindi la cosiddetta minuta e poi la macchina da scrivere. Dai primi anni Novanta uso solo il computer.
D Hai luoghi o momenti della giornata che privilegi per scrivere?
R. Nel mio studio, con i miei computer (ne uso tre), i miei libri e miei dischi, Sono un animale notturno, in genere fra le dieci di sera e le quattro del mattino. Poi, è sempre un momento buono per scrivere qualcosa.
D Tra i libri sul jazz che hai scritto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
R Uno c’è: paradossalmente, per me che sono un afro-centrista, è un libro dedicato ad un jazzista bianco:«Art Pepper, sul filo dell’alta tensione». Una monografia che mi ha dato molte soddisfazioni e che forse un editore tedesco stamperà in Germania, essendo l’unico libro in assoluto scritto da un autore europeo sul contraltista di Gardena, a parte la biografia scritta dalla moglie di Pepper.
D E c’è per te un libro-culto (non solo di jazz, ma anche romanzo) tra quelli che hai letto?
R Ovviamente, «Il Superuomo di Massa» di Umberto Eco.
D Almeno tre titoli di libri che porteresti sull’isola deserta per rileggerli più volte senza stancarsi mai?
R Su un’isola deserta preferirei portare tre dischi se il bagaglio consentito fosse solo quello. In ogni caso, «L’uomo che ride» di Victor Hugo, «Confessioni di un clown» di Heinrich Böll e «Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario, lei mi crede pianista in un bordello» di Jaques Séguéla.
D Quali sono stati i tuoi maestri o studiosi che hanno ispirato i tuoi libri sul jazz?
R. In Italia, Franco Fayenz e Gianni Morelenbaum Gualberto, oltre le Colonne D’Ercole, LeRoi Jones (Amiri Baraka) e Wadada Leo Smith.
D E più in generale maestri nella cultura, nella vita?
R Nella vita, a parte i genitori che ti forgiano anche geneticamente, alcuni miei zii con i quali si faceva a gare con i verbi, le declinazioni del latino o nel ricordare a memoria poesie e versi di opere letterarie. Sullo sfondo, la storia di un nonno cavallerizzo ed eroe di guerra, nonché di un bisnonno le cui gesta sarebbero adatte per soggetto cinematografico. Per il resto, devo molto a Sergio Saviane, scrittore e giornalista – che conobbi in occasione di alcuni seminari universitari – per i suggerimenti, le dritte e consigli che hanno fatto di me un discreto comunicatore. Fu lui ad inventare il termine «mezzobusto» per descrivere i telegiornalisti. Indirettamente devo molto a Marcello Marchesi, autore cine-televisivo, ma anche scrittore dalla prosa pungente e sarcastica.
D Qual è stato per te il momento più bello della tua carriera di critico jazz?
R In generale della mia carriera, quando mio padre ha capito che cosa io facessi realmente nella vita per vivere, anche se credo che gli sia rimasto qualche dubbio. Stricto sensu, in merito al jazz, quando ho saputo da un amico discografico americano che Sonny Rollins aveva voluto una copia del libro che ho scritto su di lui. Anche se il Colosso non capisce una parola d’italiano, è pur sempre una soddisfazione
D Come vedi la situazione della critica jazz e della musicologia jazz in Italia?
R. Sulla musicologia inerente il jazz ho già risposto prima. La critica in generale è arroccata il più delle volte sui luoghi comuni e su una zona comfort, spesso legata al concetto di minimo sforzo, massimo rendimento. C’è un fermento di nuove leve, specie sul web, che stanno iniziando a corrodere i privilegi acquisiti di alcuni maestrini a cottimo e ad azzoppare gli inutili dinosauri di carta rimasti a mezz’aria.
D E più in generale della cultura oggi nel nostro Paese?
R In Italia, dal punto di vista storico, di cultura ce n’è a bizzeffe, e ce ne sarebbe da vendere: sovente i ministri della cultura leggono poco o per niente. Se poi parliamo d’industria culturale, la quantità di opere prodotte non corrisponde sempre alla qualità e, soprattutto, l’offerta supera la domanda. Un italiano su dieci compra un libro all’anno e spesso lo usa come soprammobile a livello ornamentale.
D Cosa stai progettando per l’immediato futuro (sempre a livello di jazz)?
R Nelle prossime settimane, esce il mio nuovo libro dedicato a Eric Dolphy, in cui si cerca di rivalutare una delle figure più geniali della storia del jazz moderno. Il titolo completo è «Eric Dolphy, il Magnificatore», in quanto il polistrumentista losangelino è riuscito ad aggiungere, sempre, splendore e vividezza ad ogni sessione o live-set a cui ha partecipato, durante una breve ma intensa carriera, operando anche per conto terzi.