«Peckin’ Time» si sostanzia come un album facile e immediatamente fruibile, riconfermando un Hank Mobley padrone della materia, mai ingordo e dominante, ma alquanto aggraziato e collaborativo. Il disco fu soprattutto un corroborante energetico per l’erigenda carriera di Lee Morgan, il quale stava imparando a condividere gli spazi ed a tenere a freno i tracimanti bollori post-tempesta ormonale.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Per uno strano paradosso, nel 1958, alla Blue Note puntavano più su Lee Morgan, di otto anni più giovane, che non su Hank Mobley, il quale aveva bruciato già alcune tappe e, nonostante un suono distintivo, rotondo e, a volte, rilassato alla Lester Young, non era apparso particolarmente innovativo, mentre il suo modus agendi era stato, immediatamente, ridimensionato e cannibalizzato dal sincretismo dinamico della ricerca e della tecnica di Sonny Rollins e John Coltrane. Leonard Feather lo descriveva come «il campione dei pesi medi del sax tenore», per indicare la qualità di quel suono, a metà strada tra l’asprigno graffio di John Coltrane e la morbidezza farmaceutica di Stan Getz. Tale definizione fu, però, ripetutamente ed ingiustamente fraintesa lasciando intuire una presunta aurea mediocritas da parte del tenorista di Eastman.

Per verità storica, va detto che il comparto sassofoni in quegli anni era particolarmente affollato e la concorrenza spietata, a differenza della tromba che stava diventando quasi uno strumento d’élite con meno voci rilevanti nei paraggi. L’impatto mediatico del parkerismo aveva innescato una proliferazione di sassofonisti che, nell’arco di un decennio, si erano moltiplicati come le cavallette: ovviamente pochi emergevano ed il mercato era piuttosto selettivo. Al contrario, le trombe di qualità erano più difficili da trovare come gli idraulici durante il week-end. Il sassofonista, procedeva a piccoli passi costruendo, con la metodologia applicativa di un trequartista, un gioco di squadra che spesso altri finalizzavano. Rimanendo all’interno della metafora calcistica, si potrebbe dire che Mobley fosse un calciatore offensivo, ma che funzionava meglio in fase di assistenza alle punte. I suoi dischi non scardinavano mai le regole d’ingaggio del mercato discografico o gli assunti basilari del jazz moderno ma vendevano costantemente appagando uno zoccolo duro di sostenitori incalliti. Il tenorista georgiano aveva dimostrato di essere perfino un discreto compositore ma, come esecutore risultava poco appariscente e più adatto ad un gioco di gruppo, a differenza di Lee Morgan che, in quel periodo, appariva quasi come un unicum proiettato direttamente sul lineage evolutivo della tromba jazz, a metà strada tra Dizzy Gillespie e Clifford Clifford Brown, così diverso da Miles Davis e molto più dotato e fantasioso di Freddie Hubbard.

L’esperienza al fianco del sassofonista georgiano, visceralmente imbevuto di un sound alla Messengers, fu per il più giovane trombettista assai corroborante. Dal canto suo, Morgan aggiunse alle composizioni del tenorista un guizzo di freschezza e, si fa per dire, un anelito di relativa giovinezza: Hank «Henry» Mobley, nato a Eastman, Georgia, il 7 luglio del 1930, all’epoca dei fatti, aveva solo ventott’anni. Sostanzialmente i due si sostennero compensandosi a vicenda, soprattutto il loro morganatico artistico produsse un robusto contenitore di hard-swingn’ tensioattivo. In quel momento storico, l’hard-bop in confezione spray ed a presa rapida era il prodotto più congeniale ai laboratori Blue Note, nonché più adattivo alla linea editoriale scelta da Lion e Wolff. Non fu una coincidenza casuale se Mobley, nonostante la sua vita da mediano, continuò ad essere uomo di punta del catalogo Blue Note fino al 1970, quando molti altri buoi erano già scappati dalla stalla o condotti prematuramente al macello, mentre l’etichetta dei due oriundi tedeschi aveva cambiato padrone da un pezzo.

«Peckin’ Time» è un album equilibratamente cointestato, nonostante tutto il materiale usato nella sessione sia farina del sacco di Mobley, a parte «Speak Low» di Kurt Weill. Persino la scelta dell’art-cover è un perfetto indicatore di marcia raffigurando il contenitore di un nastro master, senza privilegiare l’immagine dell’uno o dell’altro co-leader, ai quali venne affiancata una sezione ritmica dinamica e di una certa esperienza: il pianista Wynton Kelly, il bassista Paul Chambers e il batterista Charlie Persip. Quest’ultimo, con una lunga militanza al soldo di Dizzy Gillespie e per il suo modus operandi, rappresentava un ottimo sostituto (o surrogato) di Art Blakey. Persip aveva finanche tentato di creare un ensemble modulare ed intercambiabile sul modello Messengers: Charles Persip And The Jazz Statesmen.

La combinazione umana ed artistica favorì la performance di Mobley che suonò con estrema sicurezza, forse più che in qualsiasi altro momento della sua carriera, con assoli lunghi, distesi e magistralmente rifiniti, capaci di eguagliare quelli di Lee Morgan per potenza ed inventiva. L’opener, «High And Flighty», mastica e rumina su tutte quelle praterie ancora sotto la giurisdizione dei Jazz Messengers. Siamo alle prese con un hard-bop dinamico e muscolare, dove il trionfalismo fanfarato e fanfarone dei fiati si mescola alle bordate funkfied della retroguardia ritmica, mentre gli sferzanti assoli dei due co-leader cercano di esplorare gli angiporti e gli angoli più reconditi di una metropoli in subbuglio. «Speak Low» sembra impregnarsi di un piacevole latin-tinge per poi camuffarsi in un costrutto bop a tutti gli effetti di legge, su cui Mobley appone il proprio sigillo usando un timbro lirico ed ergonomico con la correità di un ammirato Morgan che lo segue a ruota e di una sezione ritmica che non lascia aria ferma: da manuale la zampillante progressione pianistica di Wynton Kelly, mentre Chambers passeggia su una corda elastica come un equilibrista circense; dal canto suo Persip a colpi di bacchette magiche fa si che l’impeto creativo non spinga di titolari dell’impresa a perdere il metro del giudizio e i lumi della ragione per eccesso di protagonismo. Il batterista garantisce loro di non smarrirsi in un postribolo di lungaggini e di eccessi elaborando un groove contenitivo che funge da segnalatore acustico come un metronomo.

La title-track, «Peckin’ Time», assume le sembianze di un saltello in overclocking, spigoloso, asimmetrico e fitto di cambi di passo e di mood, su cui piano, sax e tromba sembrano tentare capriole come bimbi su un tappeto elastico, a cui fanno da sostegno fisico e da rete protettiva basso e batteria. «Stretchin’ Out» è l’apoteosi dell’hard-bop con tutte le dovute certificazioni in regola: un lungo e festante proscenio su quale si cimentano tutte le unità in campo, confermando Mobley come uno dei maggiori azionisti del genere e Lee Morgan apprendista stregone dai poteri già sviluppati e appariscenti. In chiusura «Git-Go Blues», una lunga maratona dal sangue blues che consente molto spazio di manovra agli assoli e alle improvvisazioni di Kelly, Mobley e Morgan.

Oltre ad essere un equilibrato testa a testa fra due talenti opposti e complementari, «Peckin’ Time» si sostanzia come un album facile e immediatamente fruibile, riconfermando un Hank Mobley padrone della materia, mai ingordo e dominante, ma alquanto aggraziato e collaborativo. Il disco fu soprattutto un corroborante energetico per l’erigenda carriera di Lee Morgan, il quale stava imparando a condividere gli spazi ed a tenere a freno i tracimanti bollori post-tempesta ormonale. Una lezione che gli tornerà piuttosto utile al momento del suo ingresso nei Messengers, dove tutto doveva ricondurre alla figura del dominus Art Blakey, secondo un antico precetto: non avrai altro Dio all’infuori di me.

Hank Mobley / Lee Morgan

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