// di Francesco Cataldo Verrina //

L’assurda idea di credere che il virtuosismo potesse essere aumentato dall’utilizzo di sostanze psicotrope divenne popolare durante i primi anni ’40, quando torme di giovani boppers si convinsero, erroneamente, che il guru del bop, Charlie «Yardbird» Parker, avesse raggiunto lo status di genius assoluto, assumendo il controllo totale dello strumento per merito di uno smodato uso di eroina. Nonostante Bird abbia sempre negato questa circostanza, decine di musicisti si ostinarono nell’abuso di stupefacenti, convinti di poter clonare agevolmente Parker e il suo modo di suonare. In verità i narcotici non aggiunsero nulla all’innato talento del sassofonista, ma ne dannarono l’esistenza, accorciandola. Parker morì a New York, nel 1955, per complicazioni fisiologiche di vario tipo, causate dell’uso eccessivo di droga e dal reiterato abuso di alcol. Quando Bird venne ritrovato cadavere, il medico legale scrisse sul referto: uomo di colore dall’apparente età di sessant’anni. Parker non ne aveva ancora compiuti trentacinque. Ci fu una folta schiera di musicisti che a partire dagli anni ’40 cercò un «buen retiro» in Europa, particolarmente in Francia e nei paesi scandinavi. Spesso all’estero trovano ingaggi migliori e maggiore considerazione da parte di produttori ed etichette discografiche; non di rado l’espatrio significava sfuggire al fisco o era dovuto ad una vera fuga legata all’uso di sostanze stupefacenti, poco tollerato dalle rigide leggi americane dell’epoca.

Lee Morgan, come molti jazzisti dell’epoca, ebbe una relazione costante con le droghe pesanti, lunga come la sua carriera. In molti periodi l’eroina lo ha dominato e solo quando riusciva a sfuggire alla dipendenza, ritrovava estro e creatività, non a caso «The Sidewinder», il suo album di maggiore successo, venne fuori durante uno di questi distacchi momentanei dagli stupefacenti. Simile alla sua stessa vita, «The Sidewinder» è una corsa ad ostacoli, caratterizzata da momenti di genialità. Un giorno Morgan ebbe come uno scatto d’orgoglio, ascoltando un programma radiofonico a lui dedicato quale tributo alla memoria, secondo alcune notizie che lo davano per morto. (…) Lee Morgan cadde presto nelle spire della dipendenza: Art Blakey ed il suo entourage facevano proseliti. Le regole, a parte quelle musicali, erano le non regole; soprattutto in quell’ambiente era difficile sfuggire a taluni eccessi. Ad un certo punto, ci fu anche una sottile complicità da parte del pubblico convinto dell’assioma: jazz uguale eccessi o hard-bop uguale nero-drogato. La concezione parkeriana che gli stupefacenti ampliassero lo spetto percettivo, moltiplicando la sensibilità dell’individuo «strafatto» verso la musica e, nella vulgata, l’insana idea che facendo uso di narcotici tutti i musicisti potessero suonare come Bird, disseminò il cammino del bop di molti cadaveri, talvolta neppure eccellenti. (…) Nella biografia «Lee Morgan: His Life, Music and Culture», Tom Perchard, professore di musica alla Goldsmith’s University di Londra, racconta che quando il trombettista ed il pianista Bobby Timmons entrarono a far parte dei Messengers, Blakey disse loro: «Vi farò accendere in due settimane». E mantenne la parola. «Art Blakey era famoso per questo», raccontò un musicista anonimo citato da Perchard. «Era il modo in cui pagava molti ragazzi. In altre parole, dava loro la droga e quando era il momento di incassare (dopo un concerto), si prendeva tutti i soldi lui». Un altro biografo di Morgan, Jeffrey S. McMillan, in «Delightfulee», cita Kiko Yamamoto, riportando le parole della modella e ballerina che Lee aveva sposato a Chicago dopo un corteggiamento di due settimane: «Era una brutta dipendenza la sua. Alcune persone come Art, per esempio, l’hanno sempre controllata, non ha mai preso il sopravvento sulla loro vita». (…) Lee Morgan per ben due volte aveva rischiato di essere precipitato prematuramente nell’Ade a causa del consumo sfrenato di sostanze psicotrope, ma se l’era scampata un attimo prima che accadesse l’inevitabile, salvo essere poi reclamato nell’aldilà da un pallottola sparata da un calibro 32. Per uno strano gioco del fato, il trombettista viene stroncato per mano di una donna, la sua compagna, la moglie mai sposata legalmente, Helen More, colei che diceva di amarlo e che lo aveva curato, soccorso, protetto e, per alcuni periodi, tenuto lontano dal quel coacervo di drogati e spacciatori che pullulavano negli ambienti jazzistici.

Lee Morgan

Nel 1950, Rollins fu arrestato per rapina a mano armata e condannato a tre anni di carcere, trascorrendo dieci mesi nel carcere di Rikers Island prima di essere rilasciato sulla parola; nel 1952 fu imprigionato nuovamente per aver violato i termini della libertà vigilata, facendo ancora uso di eroina. In questa occasione venne assegnato al Federal Medical Center di Lexington (all’epoca unica struttura negli Stati Uniti riservata all’assistenza dei tossicodipendenti) per sottoporsi volontariamente alla terapia del metadone, allora sperimentale. Rollins temeva che un ritorno alla sobrietà avrebbe compromesso il suo rapporto creativo con la musica. Il genio di Sonny Rollins uscì dalla lampada dopo aver spezzato le catene della dipendenza, soprattutto dopo essersi scrollato di dosso l’insana convinzione che l’uso di stupefacenti potesse accrescere la percezione della musica ed acuire lo spettro creativo. Per lungo tempo Sonny Rollins era rimasto intrappolato in talune convinzioni: «I musicisti jazz hanno vite dure e sono preda delle solite cose di cui tutti gli artisti sono in preda come alcool, droghe, vita senza regole. Direi che tutti gli artisti sono soggetti a farsi coinvolgere in queste cose perché è come vivere cercando di avvicinarsi alla natura e alla musica; tutto ciò è difficile da trovare nella vita di tutti i giorni, quindi musicisti, pittori e scrittori iniziano a bere e tutto il resto, perché sono alla ricerca dell’essenza delle cose che non troveranno nella routine quotidiana. Questo è ciò che rende la musica arte, qualcosa di separato dalla normalità, quindi una delle trappole è che per trovare certe cose bevi molto, fai uso di droga, trovi modi alternativi che ti diano almeno temporaneamente una coscienza ed una sensibilità diversa». Il destino volle che, dopo momenti di disperazione passati tra case di correzione e centri disintossicanti, Sonny Rollins trovasse l’antidoto agli eccessi nella spiritualità. Personalità forte ed eccentrica, ma anche in grado di affrontare le pressioni del mondo dello show-biz e della carriera a tutti i costi, condizionata da ingaggi, partenze, serate, concerti, dischi, camere d’albergo. La maggior parte dei musicisti, reagiva maledicendo quell’ambiente o abbaiando alla luna, continuando ad ubriacarsi, o peggio, a drogarsi. Rollins, molto più semplicemente, quando la pressione stava per traboccare e si avvicinava pericolosamente all’orlo del baratro o la monotonia lo assaliva, tagliava la corda e spariva, senza avvisare nessuno, spesso rinunciando a guadagni stellari ed ingaggi da favola. La ricerca del suo passato portò Rollins a sentirsi non solo un africano delle Antille ma finalmente un «nero» dell’Africa.

É, altresì, molto importante inquadrare il periodo storico e la situazione personale di Miles Davis in quello stralcio di decennio. Davis era appena uscito dai meandri della droga, come avrebbe raccontato in un’intervista alla rivista Ebony: «Preparai la mia mente all’idea di smetterla con la droga. Ne ero stanco, nauseato. Puoi stancarti di tutto, sai. Puoi stancarti anche di essere abbruttito. Mi misi dunque a letto e passai dodici giorni guardando il soffitto e maledicendo tutte le cose brutte che vivevo. Era la strada più dura per vincere quella battaglia. Era come avere una brutta influenza, solo un po’ peggio. Giacevo in un bagno di sudore freddo. Il naso e gli occhi colavano. Vomitavo tutto quello che cercavo di mangiare. I pori del mio corpo si erano aperti e puzzavo come una zuppa di pesce. Poi tutto finì». In realtà, Miles, come testimoniato nella sua autobiografia, non era riuscito a lasciarsi del tutto alle spalle la dipendenza, dunque si sarebbe sottoposto una seconda volta ad una clausura forzata nella fattoria del padre, a St. Louis.

Stan Getz tentò sempre di muoversi nel solco di Lester Young, cercando di ottenere dallo strumento un fraseggio preciso e levigato, pacato ma intenso. Nonostante la salda apparenza di uomo tutto d’un pezzo, la sua fu una carriera assai movimentata, anche con qualche eccesso legato all’uso di sostanze stupefacenti: nel 1958 dovette rifugiarsi in Danimarca, dove peraltro aveva una certa notorietà come artista, cercando di sfuggire alla legge americana che lo perseguiva per consumo di droga. Al suo ritorno, dopo tre anni, si rese conto di essere stato quasi dimenticato. Gli attori sul palcoscenico del jazz si susseguivano continuamente e la scena era in perenne evoluzione; dunque altri tenori si erano imposti all’attenzione di pubblico e critica, in particolare Sonny Rollins e John Coltrane; soprattutto l’affermazione del movimento hard bop, le avvisaglie dell’avanguardia e del free jazz con Ornette Coleman facevano apparire il melanconico cool jazz di Stan Getz, qualcosa di vecchio, stantio e superato. A partire dal febbraio 1954, trascorse sei mesi in carcere per possesso illegale di droga, nonostante da tutti i rapporti emergesse il fatto che per la prima volta ne fosse completamente fuori. Nel febbraio 1955, la moglie Beverly stava viaggiando da Los Angeles a Kansas City per unirsi a Stan, quando fu coinvolta in un grave incidente automobilistico, in cui perse la vita uno dei figli. Scosso da questi eventi, Getz cercò di mettere ordine nella sua vita, quasi compromessa dall’uso di stupefacenti.

Morto tragicamente, dopo essere precipitato dalla finestra larga solo 40 centimetri (ed è un mistero) di uno squallido hotel che albergava solo drogati, artisti randagi e poeti maledetti. Chet sapeva narrare il dolore in tutte le molteplici sfumature come solo Billie Holiday aveva saputo fare, ma, a causa della tossicodipendenza, era sempre squattrinato ed al limite della legalità, ma non se ne faceva un cruccio: «Morirò al verde – era solito dire – ed è giusto, perché è così che sono venuto al mondo». A partire dagli anni ’50, Chet Baker era stato un personaggio molto amato nel mondo del jazz, del jet-set e delle riviste scandalistiche, ma soprattutto di forte impatto mediatico: bello e con l’aria da guascone «sciupafemmine», al contempo misterioso e sofferente. Uno dei suoi album più famosi del primo periodo, realizzato insieme al sassofonista Art Pepper, un altro bello e dannato, fu pubblicato addirittura con il titolo «Playboys», in seguito ritirato dal commercio per motivi di copyright. Quasi un atteggiamento cinematografico il suo, tanto da incarnare la figura di un James Dean del jazz, pronto a vivere ad alta velocità, incurante delle insidie e della caducità di una popolarità precaria e legata sempre all’altrui consenso; una vita costantemente vissuta sul filo del rasoio che spesso l’ha condotto a situazioni estreme: droga, carcere, momenti povertà e di umiliazione, come il dover suonare nei locali più malfamati per procurarsi qualche dose di eroina. Ciononostante è riuscito ad avere una carriera, tra alti e bassi, piuttosto lunga, durata oltre un trentennio, consegnando ai posteri delle piccole gemme musicali e una fitta discografia che supera i duecento album. La sua vita spericolata non ne fece, fortunatamente, un martire, uno di quei musicisti morti in età giovanile, intorno a quali si è costruito un alone di leggenda. Chet Baker ha sofferto e vissuto, lasciando il mondo degli uomini a 59 anni, anche se in una circostanza drammatica, ossia precipitando dalla finestra di un albergo, forse perché sotto l’effetto di alcool e droghe. Le circostanze della sua morte furono piuttosto oscure, ma la versione ufficiale dell’incidente resta comunque la più accreditata. La targa posta a memoria all’esterno dell’albergo recita: «Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 maggio 1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla».

Molti artisti di colore degli anni ’50 legati al bop erano nell’immaginario comune dei ribelli, vivevano ad alta velocità, stimolati dall’uso di eccitanti e stupefacenti, improvvisavano anche nella vita, suonavano a lungo ed in maniera velocissima, erano artisticamente dei rivoluzionari, ma socialmente non avevano piena consapevolezza della loro subalternità. Quella mattina, Arthur, Art Pepper, era stato svegliato bruscamente dalla moglie Diane, la quale gli comunicava che avrebbe dovuto partecipare ad una registrazione pomeridiana, che lei stessa gli aveva procurato, con la band di Davis di passaggio in città. Pepper, che a causa dell’abuso di eroina non toccava il sax da un paio di settimane, ne rimase inizialmente sorpreso; oltremodo aveva lo strumento in pessime condizione e bisognoso di una messa a punto. Il contraltista aveva conosciuto Diane nel 1954 al Jazz City, il giorno dopo essere uscito dal carcere. La donna lo aveva invitato a trasferirsi da lei. Art, che non possedeva un alloggio o una fissa dimora, soprattutto non sapeva dove andare a dormire, accettò subito la proposta. In quel periodo il contraltista suonava occasionalmente nei locali e viveva di notte tra eccessi e trasgressioni, soprattutto aveva ripreso a drogarsi. I due vivranno una complicata storia sul filo del rasoio, fatta di tensioni, litigi, fughe ed incomprensioni, fino a quando lei minaccia di suicidarsi e lui la sposa. Un rapporto estremo fatto di situazioni parossistiche. Dopo aver consultato uno psichiatra delpronto soccorso, il quale non era riuscito a fornirle risposte adeguate, Diane iniziò a fare uso di eroina. La donna si era convinta che quello fosse l’unico modo per mettere in evidenza le sue affinità elettive con il marito, di comprenderne la dipendenza e stabilire con lui un’autentica condivisione di tutto, nel bene e nel male.

Le etichette Savoy e Dial pubblicarono oltre 30 titoli di Dexter Gordon tra il 1945 e il 1948, il quale aveva partecipato a molte altre sedute come sideman. La sua carriera era in forte ascesa già durante la seconda metà degli anni Quaranta, ma la vita sulla «Street» (come veniva chiamata la cinquantaduesima strada), simultaneamente, pretendeva il suo pedaggio; l’uso di droghe era comune tra gli esponenti del nuovo jazz, tanto che come molti suoi colleghi, Dexter divenne un eroinomane. Durante gli anni ’50, l’attività discografica e la vita personale ne furono fortemente condizionate, al punto che nella prima metà del decennio passò parecchio tempo in gattabuia per consumo di stupefacenti, rischiando di inficiare totalmente la sua promettente carriera. Negli ambienti si vociferava che fosse addirittura morto. Nessuno si aspettava che quel giorno Dexter Gordon potesse essere lì a suonare in maniera così convincente. Non lo si sentiva o si vedeva più in giro da tempo. Qualcuno addirittura pensava che fosse morto o scomparso, poiché nei guai fino al collo ed afflitto da una grave tossicodipendenza. Il sassofonista varcò l’uscio dello studio con passo lento ed affaticato, mentre la sua imponente figura, era alto più di un metro e novanta, si stagliava nella penombra. Il suo biglietto di presentazione ai sodali, che lo attendevano, fu un sorriso rassicurante, quasi a voler dire: «ragazzi, non temete, ce la faccio!». Al di là di ogni surrettizia descrizione cinematografica, un’energia divina, magica o sovrannaturale sostenne i propositi e gli intenti del sassofonista. Contro ogni previsione, in questo album, Gordon mostrò una vitalità sorprendente. Si potrebbe parlare di forza della disperazione, ma il risultato ottenuto in un set quasi improvvisato fu realmente superlativo, sostanziandosi come un tassello importante all’interno della sua lunga e frastagliata discografia (…) Alle riuscite sessioni del 1961 seguirono due pene detentive a causa di una condanna per narcotici. Il sassofonista ebbe modo di dichiarare: «Probabilmente devo la mia vita al fatto che ho avuto alcune vacanze forzate». La rinascita avvenne anche attraverso il tempo perduto negli anni ’50, quando Dexter fu arrestato più volte per possesso di eroina: un bersaglio facile, dato che i musicisti jazz erano spesso in possesso di droghe, ma a differenza dei criminali, raramente armati e propensi a contrattaccare per assicurarsi la fuga. Di conseguenza, il Nostro trascorse diversi anni a Chino, in California e in seguito venne affidato ai servizi sociali di Fort Worth e di Lexington. Questi periodi di detenzione gli consentirono di sfuggire alla vita turbolenta, all’uso di stupefacenti, godersi momenti di pace e tranquillità, ritrovare la forma fisica, fare pratica sullo strumento ed affinare il proprio stile.

Alla fine del ’56, la dipendenza dall’eroina aveva complicato ulteriormente la situazione di Coltrane, il quale seguitava ad arrivare in studio o sul palco in ritardo, sporco e strafatto. Inizialmente Davis si era mostrato paziente, invitandolo a darsi una regolata e a non esagerare con gli stupefacenti, ma alla fine si era visto costretto a licenziarlo. Monk che aveva ricevuto notizia di quanto accaduto, si prese a cuore la questione promettendo a Coltrane che, appena risolti i problemi, lo avrebbe preso a lavorare con lui, con la promessa che il sassofonista si sarebbe concesso un periodo di riposo tentando di uscire dal baratro della droga. Qualche giorno dopo Trane tornò a casa dalla madre a Filadelfia, facendosi chiudere a chiave in una stanza: in questa specie di clausura forzata, il sassofonista soffre, suda, urla, vomita, si contorce, ma con una disumana forza di volontà, in sole due settimane nel mese di maggio, apparentemente, riesce a vincere la battaglia contro l’eroina.(…) Per uscire dai confini del prevedibile, John Coltrane non aveva e non ebbe bisogno di sostanze stupefacenti: il meglio arrivò, infatti, quando riuscì a liberarsene. Le droghe furono una valvola di sfogo momentanea, una debolezza umana, una moda per ottenere, forse, maggiore aderenza al dissoluto circuito dei divi jazz degli anni Cinquanta e Sessanta. Una volta caduto nel tranello del paradiso artificiale fu difficile affrancarsi. Quel rifugio fittizio ed il tentativo di fuga dalla realtà non lo aiutarono ad uscire dal un asfissiante mondo di convenzioni. Solo lo studio costante dello strumento, al limite del parossismo e della paranoia ed un rigoroso metodo di lavoro, gli permisero di padroneggiare lo scibile sonoro alla perfezione, quindi di rifiutarne l’impostazione tradizionale e trasgredirne le regole (…) Gli ultimi anni di vita di Trane furono, però, pieni di sofferenza: nelle foto scattate in quel periodo appare stanco ed appesantito. Tornato a casa da un tour giapponese, divorato da forti dolori, il sassofonista iniziò ad ingurgitare quantità industriali di aspirina. Gli anni dell’abuso di stupefacenti iniziavano a presentare il conto. Avrebbe avuto bisogno di cure regolari, ma le sue idee lo portarono a rifiutare l’intervento regolare dei medici. Influenzato dallo studio delle filosofie orientali, Coltrane giunse al punto di accettare la morte come fatalità, senza opposizione alcuna ad un beffardo destino, ma già scritto e tracciato per ogni essere umano, dunque ineluttabile.

Presto però il jazz californiano iniziò a perdere slancio, mentre New York continuava a vibrare senza sosta ed a mantenere il primato. Molte le motivazioni, anche di carattere personale. L’uso smodato di sostanze stupefacenti portò all’arresto di un discreto contingente di musicisti vicini alla West Coast, tra cui Art Pepper, Hampton Hawes, Frank Morgan e Dupree Bolton, costringendo Chet Baker a riparare all’estero, dove l’uso di eroina era più tollerato, ma nel 1964 venne espulso da quasi tutti i paesi, Italia compresa, per possesso di sostanze stupefacenti (…) La storia e le cronache del jazz hanno celebrato ed esaltato personaggi meno dotati e capaci. Tina Brooks è stato un magnifico talento, morto prematuramente a soli 42 anni per insufficienza epatica dovuta al massiccio uso di stupefacenti. Dal 1961 in poi la dipendenza dall’eroina lo aveva reso quasi incapace di esibirsi e di registrare. Eppure, era stato un improvvisatore straordinario, dotato di un tempismo unico, ma al contempo sensibile ed in grado di intessere con il suo sax arazzi sonori intricati e complessi. Il suo lirismo, la concretezza delle idee e la carica interiore erano sbalorditive. (…) Lo stile lungimirante di Tina Brooks, insieme ai suoi eccezionali doni compositivi, lo resero una forza potente, ma solo per pochi anni. La sua luminosa stella bruciò intensamente per un breve periodo, prima di spegnersi nello stesso tragico modo di quella di molti altri giovani promesse di quel periodo.

Chet Baker

Tratto da «JAZZ Uomini & Dischi. Dal Bop al Free» di Francesco Cataldo Verrina / Kriterius Edizioni (Seconda Edizione, Ottobre 2023)

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