// di Guido Michelone //

Quest’intervista risale a moltissimi anni fa, come si intuisce anche da una mia domanda. Avevo incontrato nel 1993 lo scrittore britannico Geoff Dyer (classe 1965) in un salottino alla Feltrinelli di Milano per un colloquio vis-à-vis (con interprete) in merito all’uscita del suo libro Natrura morta con custodia di sax, che, per me, resta forse il più bell’esempio di letteratura jazz (racconti in questo caso, impersonificati dai veri jazzisti). In appendice al testo l’edizione di allora c’era un lungo saggio in cui egli delineava la sua idea di jazz e al contempo trattava il risveglio d’interesse per questa musica (dopo il dixieland revival fin dagli anni Cinquanta surclassata da blues, r’n’b, soul e soprattutto rock) da parte dei giovani che, a livello di artisti,km si divisero un due tronconi: da un lato i jazzisti veri e proprio (quelli citati nell’intervista medesima) dall’altro lato gli esponenti dell’acid jazz che resta una denoninazione impropria perché, a parte qualche tentativo di soul-jazz (James Taylor Quartet) gli latri si ispirano quasi sempre al funky, al soul, persino alla prima disco-music (Jamiroquai, Brand New Heaven, Incognito, Mother Earth, ecc.,). Ciò detto trovo le parole di Geoff ancora interessanti e in molti frangenti persino attualissime.

D Geoff, cosa intendi esattamente nel tuo saggio, quando affermi che la letteratura jazz non era poi così rilevante?

R Secondo me c’è una certa incompatibilità tra musica e scrittura: il jazz trova la sua espressione migliore quando è cool, cioè fresco, spontaneo, improvvisato. D’altra parte la scrittura è ovviamente qualcosa di molto più sedimentato e meditato. La letteratura jazz è spiritosa quando riesce a catturare lo spirito della musica, quando le parole sono intrise e intrise della stessa spinta che è all’origine (cioè alla base) del suono jazz.

D Parlando del Regno Unito, che ruolo hanno avuto gli intellettuali nei confronti del jazz? L’unico nome rilevante da menzionare è ancora Eric Hobsbawn, uno storico ed economista che ha scritto di jazz sotto uno pseudonimo.

R All’epoca della prima pubblicazione di Hobsbawn, la percezione del saggio sul jazz come opera minore rispetto agli studi accademici tradizionali era ancora molto forte. Ma a partire dagli anni Cinquanta, nell’ambiente universitario, molti scrittori britannici furono influenzati dal jazz. Il più grande fu sicuramente il poeta Philip Larkin, che era solito ascoltare diversi dischi jazz a Oxford, come simbolo di ribellione e anticonformismo. Larkin ha poi avanzato una teoria peculiare, affermando che ci sono state tre figure chiave nella vita intellettuale del nostro secolo: Ezra Pound per la poesia, Pablo Picasso per la pittura e Charlie Parker per la musica. Dopo Parker, niente è abbastanza rilevante per Larkin. Ma a questo punto si avverte un netto disaccordo tra il livello raggiunto dal jazz negli anni e quello indicato da Larkin.

D Sembra quasi di sentire le posizioni del francese Hugues Panassié che, pur facendo molto per il jazz durante gli anni Trenta, in qualità di critico, studioso, discografico, poi, dal dopoguerra si rifiutò di considerare quanto realizzato dal bebop in avanti.

R La sua posizione [Larkin] nei confronti del jazz moderno rivela chiaramente la sua ostilità nei confronti del modernismo in generale. Nel suo unico libro completamente dedicato al jazz, (ancora inedito in Italia) Larkin indica i musicisti e gli interpreti neri come buoni intrattenitori, ma sottolinea anche come non possano essere descritti come veri artisti. Inoltre esprime giudizi molto ingiusti sui jazzisti e sui loro dischi. Ad esempio, Larkin descrive il brano Alabama come una canzone squisita e deliziosa, evitando di menzionare che questa canzone è stata eseguita da John Coltrane come una ferma condanna di un episodio di vandalismo omicida condotto dal Ku-Klux-Clan in una chiesa nera. Ciò rivela chiaramente un atteggiamento incolto tipico dei cosiddetti intellettuali britannici.

D Siamo nel 1995. Come viene vissuto il jazz oggi nel Gran Bretagna?

R Negli anni Ottanta si assiste ad un vero e proprio revival del jazz nel Regno Unito, soprattutto a Londra. Quindi il jazz diventa praticamente di moda. Questo risveglio è stato un evento senza precedenti per tre diversi motivi. In primo luogo, questo revival è iniziato nella scena dei night club britannici, qualcosa che non era mai accaduto prima. In secondo luogo, un senso comune dello stile e della moda si è diffuso in tutto il Paese. Oltre la musica, anche le arti figurative (e in particolare le foto di Hermann Leonard, incentrate sul jazz) vengono via via molto apprezzate e rivalutate. Il terzo e ultimo motivo risale proprio alla fine degli anni Ottanta: in questi anni cresce la prima generazione di neri completamente britannici (anni dopo l’immigrazione dei genitori nel Regno Unito) e inizia a creare una musica personale, peculiare, fortemente influenzata da diversi elementi stilistici locali: sonorità europee, africane, caraibiche e ovviamente nordamericane.

D Possiamo individuare uno stile o una cultura jazz adeguata nel Regno Unito?

R Innanzitutto, il tipico “Blue Note sound” di artisti come Art Blakey, Lee Morgan, Horace Silver e Lou Donaldson ha influenzato tutti quei giovani jazzisti britannici, bianchi e neri, che furono davvero influenti negli anni Ottanta: Courtney Pine, Andy Sheppard, Tommy Smith e Steve Williamson tra gli altri. Il revival della musica jazz negli anni Ottanta ha permesso al pubblico giovane di riscoprire musicisti come Pharoah Sanders. Il primissimo concerto di Sanders a Londra, che ho recensito personalmente sul giornale «The Observer», ha davvero aperto questa stagione di entusiastico jazz revival. Penso che ci sia ancora una contraddizione tra vecchi e nuovi jazzisti britannici: mentre i primi (vicini al free jazz e alla sperimentazione), hanno sempre mantenuto uno stile di vita di basso profilo, che si riflette nel loro sound musicale, i secondi sono molto più formali con i loro abiti griffati Armani e il loro suono morbido e raffinato. Parlano una specie di linguaggio post-bop, pieno di citazioni. Quindi, paradossalmente, i vecchi musicisti appaiono molto più genuini e freschi dei nuovi artisti. Aspettiamo e vediamo cosa accadrà. La musica funky è attualmente la musica più alla moda di Londra, ma abbiamo anche una figura come Julian Joseph, che suona ottima musica jazz ‘classica’.

D Che tipo di jazz, Geoff, credi che prevarrà in futuro?

R Questo è un momento molto importante per la musica, stanno emergendo molte espressioni diverse, solitamente etichettate come musica etnica, world music o new ethnic. Non sono sempre così entusiasta del modo in cui i diversi generi musicali si fondono. Per creare un progetto di buona qualità, il jazz dovrebbe mantenere il suo segno peculiare, anche se fuso con espressioni musicali diverse e altre culture. Wynton Marsalis rappresenta un atteggiamento che potremmo definire postmoderno, termine che non molti apprezzano. Ma con la parola postmoderno mi riferisco alla possibilità, a un certo punto della storia della musica, di tornare alle radici della musica, e poi improvvisare per andare oltre tutto ciò, per andare oltre ciò che è moderno. Questo non era possibile prima di Marsalis. Parlando dell’era postmoderna, un fenomeno interessante è la fusione tra jazz e musica classica. Questa volta la figura più interessante non è Marsalis, ma Keith Jarrett. Il suo squisito lavoro su Bach, oppure con i Solo Concerts, ha avuto davvero una rilevante riflessione sul pianismo jazz, creando uno stile che non ha eguali nel mondo.

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