Per quanto basato su un concept moderno, il disco rivolge sovente lo sguardo allo specchietto retrovisore, sviluppando una rilassata aura di benessere fisico e mentale, nonostante i momenti intensi ed un trio jazz in perfetta armonia che fa sul serio.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Sembra che ci sia un punto sulla terra, in una regione compresa tra il 44° grado nord e il 44° grado sud, dove le palme crescono nella maniera più naturale tratteggiando ambientazioni dai cromatismi magici ed avvolgenti. Non è un bollettino per naviganti, ma un’indicazione per i cercatori di buona musica. Il pianista tedesco, italiano di adozione, Christian Pabst, sembra abbia trovato in quella che chiama «The Palm Tree Line» l’ispirazione per il suo ultimo album che porta in calce questo titolo, quasi un legame ideale con questa «linea», calda, solare, piena di vita, ritmo, colore, musica, mistero e che, al contempo, guarda a Sud del mondo, dell’Italia come dell’America Latina, terre ricche di fascino e contraddizioni, corroborate dal calore umano e magnificate da solatie spiagge avvolte da una bellezza mozzafiato: «Quando ero piccolo» confessa Pabst, «le vacanze con la mia famiglia avevano sempre direzione sud Europa, alla ricerca del sole e caldo. Ricordo che sin da bambino, la vista delle palme mi abbia sempre affascinato: associavo questi alberi meravigliosi, a un viaggio più lungo del solito, più lontano, che mi avrebbe portato in luoghi e paesaggi molto diversi da quelli di casa mia». Nel suo disco il pianista mostra un calibrato controllo dello strumento, un’attitudine alla melodia ed il desiderio di sviluppare insieme ai sodali un coinvolgente substrato ritmico.
«The Palm Tree Line», pubblicato da Jazz Stick Records costituisce un ulteriore passo avanti ed una svolta nella carriera del pianista tedesco. Dopo quattro dischi realizzati con materiale esclusivamente originale, per la prima volta Pabst interpreta la musica di altri compositori. Il disco in oggetto rappresenta anche il debutto con un line-up italiano del tutto nuovo. Oltre Francesco Pierotti al contrabbasso e Lorenzo Brilli alla batteria, sono stati coinvolti nel progetto due ospiti d’onore: la cantante Ilaria Forciniti e il fisarmonicista Federico Cili. Il costrutto sonoro di Pabst è contrassegnato da un jazz policromatico, dove lo svolgimento tematico predilige melodie dai contrafforti mediterranei e dal latin-tinge, sostenute da arrangiamenti ariosi e spaziati, nonché ricchi di forti suggestioni, talvolta oniriche e sospese che, per metafora, si disperdono negli occhi e nella mente di chi osserva intensamente gli scenari naturali. Il pianista, con la complicità dei compagni di viaggio, tira fuori tutto il suo sturm und drang e traccia su pentagramma un attestato d’amore per la sua patria d’adozione: l’Italia, dove passato e presente sembrano mescolarsi amabilmente, tra sogno e realtà. Basta l’opener per non scollare più il fruitore dal disco. «Mambo» di Leonard Bernstein da West Side Story espelle subito una dissonante energia tintinnante come un campanello che chiama a raccolta gli astanti. L’incedere è propulsivo e sostenuto da un incontenibile assolo di pianoforte, nonché locupletato in retroguardia dall’incisivo tandem formato da basso e batteria. A seguire il tema di «Amarcord» di Nino Rota riportato a nuova vita con un’inedita vestizione in stoffa pregiata di tipo jazz. L’arrivo di «Amara Terra Mia», canzone appartenente alla tradizione popolare abruzzese (intonata nei campi dalle raccoglitrici di olive), riadattata da Giovanna Marini e in seguito rielaborata da Domenico, getta un ponte tra passato e presente e s’imbeve di sangue blues attraverso la voce Ilaria Forciniti, mentre la fisarmonica di Federico Cili ne salvaguarda la maliarda essenza da piccolo mondo antico. A ruota arriva «Un’ora sola ti vorrei» composta nel 1938 da Paola Marchetti su versi di Umberto Bertini per la commedia musicale, «Una voce nell’ombra», quindi riadattata ad un contesto più moderno dagli Showmen e da Ornella Vanoni nel 1967.
Passo dopo passo, Pabst conduce il trio con disinvoltura e in scioltezza, evidenziando una spiccata sensibilità melodica, ma soprattutto la capacità di intavolare un rapporto dialogico con i vari strumentisti, in quello che si sostanzia come il suo lavoro più introspettivo e centripeto, diluito e spinto verso l’esterno dalle intriganti sonorità cubane di «Alhambra». «O cielo ce manna sti ‘ccose» di Armando Trovaioli proviene dalla colonna sonora di «Matrimonio all’italiana» di Vittorio De Sica. Pabst, che è anche compositore di colonne sonore, dice: «Amo creare una musica che parli al cuore e alla mente allo stesso modo». L’ironica storia d’amore messicana di «Déjame Llorar» è imperniata su ritmo swing puntellato di soul. Dopo una lunga perifrasi strumentale, l’ultima strofa viene cantata dalla band e da Ilaria Forciniti. «Tramonto» suggella l’album con un assolo di pianoforte da manuale del jazz moderno, quasi un rito propiziatorio al chiaro di luna. «The Palm Tree Line» è un lavoro non rivoluzionario, ma quasi un esercizio sonoro di dinamica mentale. Ma chi la detto che la tradizione e la scelta di una pennellata leggera non possa essere a sua volta rivoluzionaria? Per quanto basato su un concept moderno, il disco rivolge sovente lo sguardo allo specchietto retrovisore, sviluppando una rilassata aura di benessere fisico e psichico nonostante i momenti intensi ed un trio jazz in perfetta armonia che fa sul serio.