// di Irma Sanders //

Quando hai tanti dischi, alcuni li tieni fermi da parte, magari di uno in particolare hai un buon ricordo, sai che è un’opera importante, di qualità ma quando la riascolti, dopo almeno 5 anni, scopri che è ancora migliore di come te la ricordavi e che forse può ancora farti scoprire molto e darti tanto in termini di piacere e di conoscenza. Il tempo passa ed hai nuove consapevolezze, ascolti quel vecchio vinile, stampa CBS del 1969, con più attenzione, lo scandagli, vai in profondità, soprattutto devi trovare le parole per condividere certe emozioni con gli altri. Questo album racchiude frammenti di alcuni concerti di Miles Davis: sulla prima facciata, al Newport Festival del 3 luglio 1958, con la formazione storica composta da Miles Davis tromba, John Coltrane sax tenore, Cannonball Adderley sax alto, Bill Evans piano, Paul Chambers basso e Jimmy Cobb batteria; sul lato B, tre brani provenienti da un concerto newyorkese del 26 maggio 1958, sempre con il sestetto di cui sopra al completo ed un pezzo registrato il 14 aprile del 1961 al Blackhowk di San Francisco in quintetto con Hank Bobley al sax tenore, Winton Kelly al piano, Paul Chambers al basso e Jimmy Cobb alla batteria, ovviamente il capo branco, Miles Davis, alla tromba.

In verità è come ascoltare due dischi in uno, o vedere la due facce di una stessa medaglia: il jazz, suonato ed interpretato in maniera completamente diversa, più o meno dagli stessi musicisti. La prima facciata, riferita al Newport festival è una galoppata hard-bop con uno straordinario John Coltrane in libera uscita, dal vivo il capo gli consentiva maggiore libertà espressiva, ed un Cannoball Adderley che soffia nel mantice e si diverte come un bambino. Il secondo lato dell’album ha l’andamento disteso e meditativo del cool, in quel periodo era la nuova passione di Davis, dopo l’abbandono del bop. Perfino lo stesso brano, «Fran-Dance», di cui Miles era autore, venne interpretato in maniera diametralmente opposta. Tutto ciò conferma la mia tesi di sempre, ossia che a prescindere dal cool, dal bop, dall’hard-bop, dal free, esiste il jazz, soprattutto esiste chi lo suona e come lo suona. Evidentemente, esistono componimenti che sono più predisposti ad essere interpretati in una maniera, anziché in un altra. Il disco si apre con «Ah Leu Cha» di Charlie Parker, il classico bop che procede a passo spedito, Trane sembra libero da ogni legaccio e molto disinibito, Cannonball regge il confronto, ed aggiunge melodia ed ariosità alla partitura dei sassofoni, ma anche la tromba di Miles sembra in preda al ballo di San Vito, mentre la sezione ritmica d’appoggio non sta certo con le mani in mano; la melodia scorre in un battito di ciglia disintegrandosi sotto i colpi della aretroguardia: Cobb e Chambers lasciano ad intendere che bisogna aumentatre la velocità, mentre Davis cede il passo a Coltrane, già spostato sulle sue linee angolari verso il punto di rottura armonico muovendosi in modalità per un veloce fuori pista.

«Strait No Chaser», a firma Thelonius Monk, è un tipico bop eseguito secondo il classico schema, dove gli assoli si alternano in una sequenza logica senza respiro, uno via l’altro; l’apparente competizione è solo il gioco delle parti e quando arriva il suo momento, Bill Evans non teme assolutamente il confronto con il Monaco, anzi lo bribbla, ridando una nuova impostazione al piano. L’invenzione armonica di Evans sulla melodia non potrebbe essere più lontana da quella dell’autore del brano. Il focus melodico viene spostato negli intervalli armonici, quasi senza sforzo. L’assolo di Coltrane mostra la vera eassenza espressiva del sassofonista, attraverso un assolo che lascia presagire il Trane che verrà, forse per la prima volta su disco, mentre Adderley arricchisce la melodia con l’abilità di chi conosce i ferri del mestiere. Quando Evans apporta il suo assolo, il blues di Monk sembra che non abbia mai conosciuto un fraseggio così ornato, bello ed swingante, pieno di cromatismi e ricco di sfumature. Non c’è sfoggio accademico nel suo approccio, ma è la risultante di una formula espressiva ed emozionale che di estrinseca attraverso la raffinatezza e l’eleganza; «Fran-Dance» è una composizione di Miles Davis, ma in questa versione risente ancora di tutti gli insegnamenti, i condizionamenti e le regole d’ingaggio della vecchia scuola bop; «Two Bass It» composta da John Lewis e Dizzy Gillespie, appare ancora un tributo al primigeniobop, non avrebbe potuto essere diversamente: la sezione ritmica incalza, la tromba vola verso alture impossibili, se si pensa al Davis nella dimensione cool più ferma e spaziata; Coltrane sembra aver ottenuto un permesso speciale per buttare una quantità di energia spropositata nel sax, ancora un’avvisaglia del Trane che verrà.

Appena giri il disco, però, il mondo cambia. Sulla B side, è tutto un altro atteggiamento, l’umore cambia, anche se gli uomini sono gli stessi, gli animi si freddano ed il Miles Davis cool entra in azione: «On Green Dolphin Street» di Ned Washington e Bronislau Kaper, uno standard del 1947, tratto da un film, viene eseguito con un’eleganza sopraffina, il piano di Evans e la tromba calibrata e contenuta di Davis, preannunciano inconsciamente quello che sarà lo stile di «Kind Of Blue», così come in «Stella By Starlight» sempre a firma Washington e Kaper. Le altre due tracce della seconda facciata sono una differente versione di «Fran-Dance» di Miles e la ripresa per oltre due minuti di «On Green Dolphin Street». Il concerto di Newport faceva parte di un tributo del festival a Duke Ellington, ma ciò non impedì a Davis di ostentare, in modo aggressivo e lampante, ciò di cui era capace il nuovo line-up. Sei mesi dopo, registrando «Kind of blue», avrebbe dimostrato a chiunque che quel fantastico ensemble poteva arrivare perfino sul tetto del mondo.

Miles Davis Quintet And Sextet e Miles At New Port è la summa di due momenti speciali nella variegata e mutevole carriera di un genio inarrestabile nella sua voglia di cambiare e di confrontarsi con la realtà in divenire. A prescindere dalle differenze di stile, è un ottimo album di jazz «moderno», una pubblicazione interlocutoria, ma necessaria a comprendere l’evoluzione di colui che del jazz ha sempre fatto una materia plasmabile a sua immagine e somiglianza, pochi altri come lui o quanto lui, di certo diversamente da lui

Miles Davis & John Coltrane

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