// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando il jazz goes to the Museum, determina un risveglio dell’arte in generale, talvolta ferma nella sua atavica bellezza. «Che cos’è una galleria d’arte – disse una volta Picasso – se non una vecchia cantina con tanti salami appesi alle pareti». Le arti figurative sono immobili nella loro magnificenza, ma se unite al jazz possono ritrovare il dinamismo del coinvolgimento, la loro motilità e trasferire la sensazione. È questo l’effetto taumaturgico che producono taluni artisti esibendosi alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria, specie se l’erogatore di cromatismi jazz, a tinte tenui o accese sulla tela delle emozioni, è uno dei massimi pianisti italiani con legami e riconoscimenti internazionali. Enrico Pieranunzi ha ricordato a molti che a Perugia esiste anche il jazz, quello serio, gettando nell’oblio la burlesca e festaiola esibizione da villaggio turistico di Bollani all’Arena Santa Giuliana.

Enrico Piranunzi distende ed espone sul pianoforte cinquant’anni di storia del jazz moderno e la porge agli astanti con garbo, eleganza e maestria. Pieranunzi sa essere summa e sintesi, raccordo tra stili e linguaggi, diventando un perfetto hub a cui si collegano idealmente i miti del pianismo jazz del passato e del presente. Le sue indicazioni per il futuro del jazz che verrà sono subliminali, ma chi possiede, acume, sensibilità e conoscenza del scibile sonoro percepisce come e quanto il suo spirito di visionario ed eterno indagatore sia sempre in attività. Una mostra d’arte jazzistica che diventa un piccolo sussidiario suddiviso in capitoli indirizzato a quanti vogliano approfondire le dinamiche costruttive, evolutive ed esecutive della musica improvvisata. Energia, pathos e liricità segnano le vari tappe della performance, attraverso una squisita sensibilità interpretativa. Pieranunzi è protagonista ma non deborda producendo un flusso sonoro, arioso e brillante, caldo e avvincente.

Enrico al pianoforte genera l’effetto di un’orchestra, la sua tecnica espositiva è così ricca di cromatismi che s’irradiano nei temi sviluppati attraverso melodie, a volte seduttive ed avvolgenti, altre volte oniriche e sospese, tanto da non lasciare mai aria ferma. Le due mani giocano sui tasti con la scioltezza e la naturalezza non di chi vuole o deve dimostrare ma di colui che sa narrare senza capitolare sotto il virtuosismo o il manierismo accademico: l’improvvisazione di Pieranunzi è un dialogo serrato con sé stesso o il suo alter ego ideale. I tempi si sdoppiano e si raddoppiano, le dita sembrano moltiplicarsi in un continuo by-play da manuale. Il suo modo di suonare diventa una lectio magistralis senza mai sfiorare il tedio del nozionismo o del jazz in scatola di montaggio. Tempo addietro, Brian Morton scrisse di Enrico Pieranunzi: «Coniuga i valori essenziali del jazz con una concezione della struttura e dell’ordine che trova origine nella musica classica, il tutto animato però da un forte senso di libertà».

Se ascoltato con attenzione, il pianista diventa una sorta di case-study vivente attraverso continui scambi osmotici con la tradizione e l’avanguardia. Nonostante il luogo consacrato ma austero, incorniciato, geometrico e pieno di ombre del passato, che avrebbe potuto incutere timore riverenziale, il pianoforte si piega alla diteggiatura di Pieranunzi divenendo costantemente vibrante, le sue fughe mutano in un armonioso incanto. Se la Galleria nazionale dell’Umbria fosse stato un museo delle cere, le sagome si sarebbero sciolte sotto l’effetto calorifero di una jazz apolide che produce effetto Joule, distinto e non ostentato, generoso ma non sottomesso alle logiche ruffiane del intrattenimento gaudente e ludico. Pieranunzi suona sé stesso e gli altri da sé ne diventano parte integrante, lontano da ogni citazionismo o appropriazione indebita. Solo Pieranunzi suona come Pieranunzi, ma non solo per Pieranunzi, mentre il pubblico sembra gradire, piacevolmente coinvolto e soddisfatto: il trasferimento della sensazione è riuscito, il Pinturicchio sorride, mentre il Perugino si sfrega le mani. Questo è il jazz nella sua forma più esplicita di arte popolare.

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