// Guido Michelone //

Nonostante i molti anni di reciproca conoscenza, sono purtroppo rare le occasioni di incontrare Lorenza, se non per qualche festival nelle mie vicinanze, data la mia risaputa ‘forzata’ predilezione per gli ascolti discografici, meno impegnativi dal punto di vista dell’organizzazione materiale (viaggi, orari, posteggi, ristoranti, dopoconcerti, eccetera). Detto questo, dovrei forse vincere tali ‘forzature’ per incentivare le occasioni di vedersi ‘live’ onde condividere maggiormente le esperienze cultural-musicali di cui Lorenza può andare fiera: per me si tratta di una delle maggiori figure di critico jazz oggi in Italia, senza ‘se’ e senza ‘ma’. Del resto basta leggere anche solo quest’intervista per rendersene subito conto.

D In tre parole chi è Lorenza Cattadori?

R Che incipit! Direi ricettività, passione e un bel po’ di cocciutaggine.

D Raccontaci in breve la tua attività professionale.

R Ho iniziato a occuparmi ‘professionalmente’ di jazz a quattordici anni, conducendo alcune trasmissioni incentrate sul jazz per una radio privata, RCL26 a Soresina in provincia di Cremona. Pensa che il curatore del mio programma era Marco Biondi, che poi è diventato un conduttore radiofonico di grande successo… Da quel momento ho sempre scritto di jazz sia per trasmissioni radiofoniche che per quotidiani locali, cercando di ascoltare e informarmi con costanza: e poi è arrivato il web. Ho iniziato a scrivere su vari siti (molto rudimentali, in verità) e nel 1996 ho incontrato Luciano Vanni, che mi ha invitata a collaborare sulla sua prima rivista “Il Gezzitaliano” – quella che sarebbe diventata dopo poco tempo Jazzit – e ho scritto per lui molti articoli e recensioni. Successivamente ho pubblicato i miei testi sul bel sito Jazz Convention, diretto da Fabio Ciminiera, e talvolta anche sull’altrettanto interessante Tracce Di Jazz del bravissimo Roberto Dell’Ava. Fino ad approdare alla rivista Musica Jazz, dove scrivo dal 2014, e a Rete Due, il canale culturale della Radio Svizzera Italiana, per il quale scrivo e conduco periodicamente una serie di programmi di approfondimento.

D Che musiche ascoltavi da bambina?

R Ognuno dei ricordi di me bimba è legato a un brano musicale. Mio nonno che mi cullava cantandomi ‘Capinera’, un pezzo tristissimo degli anni ’50 che però nella sua interpretazione mi divertiva e mi rassicurava; il marito ammalato della mia tata, che adorava La Bohème e me la cantava tutta, facendomi poi anche ascoltare le varie voci che, a detta sua, l’avevano interpretata meglio (motivo per cui ancora oggi conosco a memoria tutta l’opera, che rimane la mia preferita in assoluto); la nonna che cuciva cappelli e se li provava ondeggiando davanti allo specchio cantando ‘Io ti darò di più’ cercando di imitare la gestualità di Ornella Vanoni… Mi avevano regalato uno di quei mangiadischi portatili e io mi ricordo, certo, di aver amato nei primi anni della mia vita Rita Pavone – che poi ho conosciuto davvero – Mina o Gianni Morandi, ma ripensando a quegli anni i nomi più frequenti sono The Shadows, Los Indios Tabajaras, Burt Bacharach e soprattutto quello di cui ti parlerò nella risposta successiva 

D A che età e come hai scoperto il jazz?

R Ero una gran rompiscatole, e quando mi piaceva veramente qualcosa, la reiteravo in continuazione coinvolgendo inevitabilmente anche i miei: un po’ come i bimbi piccolissimi a cui proponi un giochino e loro, quando apprezzano, ti continuano a chiedere “Ancora, ancora!” Solo che io avevo quasi otto anni e da un bel po’ di mesi volteggiavo per casa con improbabili tutù – assemblati con pezzetti di tulle che mi regalava una sarta amica della nonna – cantando senza sosta la colonna sonora del film Mary Poppins. Poi un giorno è tornato mio padre, un uomo fascinoso e molto latitante a cui gli amici avevano imposto l’ascolto di alcuni vinili importanti. Mi ero seduta accanto a lui e a un certo punto qualcosa aveva attirato la mia attenzione: su una di quelle copertine c’era una foto di Julie Andrews-Mary che ballava con Bert-Dick Van Dyke nella famosa scena degli spazzacamini sul tetto. Lo afferrai subito e qualcosa non mi tornava, pur essendo la lista dei brani compatibile con la mia colonna sonora preferita. Sarà stato quel –gton– nel nome dell’artista, o l’elenco di musicisti completamente sconosciuti alla me di allora: ma chiesi subito a mio padre di farmelo ascoltare, e fu davvero una folgorazione. Ascoltavo i temi che conoscevo benissimo e li sentivo così strani e affascinanti che dissi ad alta voce: “Ma è bellissimo, questa Mary Poppins la stanno suonando come se fossero davanti agli specchi deformanti della Fiera di San Pietro (un Luna Park che arrivava nel mese di giugno, N.d.A.)!” Al netto del termine ‘deformante’, che pure non aveva una valenza negativa nel mio sentire, quel disco di Duke Ellington mi ha rivelato un mondo preziosissimo, e sul jazz comunque la penso tuttora così.

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz? Se sì perché?

R Ne sono convinta, e sto parlando di un senso profondissimo anche rischiando di apparire banale, perché è quasi inevitabile per gente come me o te e per tutte le persone che conosciamo e che se ne occupano. Meno frequentemente pensiamo al jazz come valore assoluto e molti – soprattutto in Italia – ne sono quasi spaventati. O meglio: sono atterriti dal termine ‘jazz’, dall’allure che si porta dietro di musica complessa, in certi ambiti politicizzata, sicuramente intellettuale. A me anni fa era capitato un sindaco che, alla mia richiesta di organizzare un piccolo festival jazz, aveva risposto con un terrorizzato “Ma no, il jazz è troooppo progressista” (immagina il termine pronunciato con un forte accento piemontese!). “Mi quantifichi il termine, la prego” avevo risposto, ma già tutta la faccenda era esilarante di per sé, se non fosse tragica. Vuoi un altro esempio? Molte persone negli anni Duemila guardavano “Un giorno in pretura” su Rai Tre e mi capitava spesso che alcuni conoscenti mi chiedessero come si intitolasse ‘la bella musichetta’ che ne era la sigla. Peccato fosse Tutu, Miles Davis da Marcus Miller, insomma: tutto fuorché un motivetto, ma se alle stesse persone avessi mai palesato la nobile provenienza ne sarebbero subito uscite intimorite. Il jazz oggi ha un senso vero solo quando decide di uscire dalla propria dimora blasonata e torna a essere una musica imprescindibile, che permea tutto. Quando inizio ad approfondire qualunque musicista in qualsiasi ambito a partire dal Novecento, lì c’è il jazz.

D Sei forse l’unica donna in Italia a fare critica jazz. Come ti trovi in questo ruolo storicamente maschile?

R Al di là del livello oggettivo, di cui però mi trovo fondamentalmente a parlare pochissimo, non me ne accorgo neanche, credimi. Di certo mi trovo molto più a disagio quando a volte mi relegano nella parte della giornalista ‘donna’ che deve necessariamente parlare di altre donne. Ecco: lì mi percepisco un po’ ghettizzata e fatico a procedere, cercando con ogni mezzo di uscire da un ruolo imposto. La mia musa ispiratrice è Rossana Buono, unica giornalista donna in un nucleo maschile all’interno della Musica Jazz di Arrigo Polillo: una forte passione in comune stempera le asperità, questo è certo. Infine, non credo di essere l’unica donna in Italia a fare critica jazz. Ci sono Daniela Floris, Rosarita Crisafi (che è anche musicista)… Certo siamo pochissime, e non ancora completamente sdoganate come invece è avvenuto nel calcio.

D Ritieni sia anche un po’ maschilista il jazz, a livello di musicisti, organizzatori, critici e studiosi?

R Per forza di cose, lo è. Mi rende triste ammetterlo, ma io stessa talvolta mi sono scontrata con questa realtà, seppure nelle premesse io non abbia alcuna velleità di ‘lotta’. Come spesso avviene in questi casi, tutto parte da un pregiudizio – nell’accezione più letterale possibile – e se nella musica la convinzione è che nel jazz le donne siano meno preparate, oppure più o meno tutte cantanti (e sappiamo quanto si possa essere perfidi con le cantanti, tra barzellette e leggende metropolitane!), nel mio ambito a volte dai miei colleghi maschi fioccano giudizi del tipo “Ma tu scrivi da donna!” e per quanto io abbia sempre provato a comprenderne il significato, non sono mai riuscita ad afferrare cosa vogliano davvero intendere. Probabilmente una scarsa tendenza ai tecnicismi, la ricerca di un clima, sensibilità differenti che colorano un pezzo e che magari ad alcuni colleghi sembra affettazione… Non so: ma vado diritta e mi sono ormai lasciata alle spalle il desiderio di piacere a chiunque.

D Qualche aneddoto buffo o curioso in tutta la tua attività?

R Oh ma certo, quanti ne vuoi!!! Il mio preferito è questo: anni fa, durante un festival, non si era presentato un giornalista per la presentazione del libro di un famoso collega. Il direttore artistico era assai agitato e alla fine chiese a me se potessi sostituirlo. Avevo letto il libro, per la verità lo avevo trovato inutilmente pomposo, ma accettai cercando di lasciar prevalere la professionalità al giudizio personale. Fu una presentazione davvero divertente, dialettica, molto acclamata dal pubblico e mi ero accorta che a ogni mia domanda il famoso interlocutore strabuzzava gli occhi e rispondeva con frasi brillanti e grande trasporto. Bene: alla fine della presentazione stavo per andarmene e il famoso collega mi raggiunse, mi fermò e tutto gongolante mi disse: “Splendido, Cattadori, splendido davvero! Non pensavo che lei fosse così intelligente!” Capisci? Tutto questo naturalmente tra i mille “Ah però! Per essere una donna ne sai di jazz!” che mi sono capitati negli anni… Eppure, invece di infervorarmi e incattivirmi questi episodi mi fanno veramente sorridere.

D Che idea hai tu del jazz quale espressione artistica e culturale?

R Un’idea del jazz è esattamente questo: che il jazz da genere musicale si sia tramutato, espanso in una perfetta espressione artistica densa di cultura. E quando parlo di cultura non mi riferisco necessariamente all’idea di ‘colto’ imperante: nel jazz cultura è Johnathan Blake che suonando deborda dal proprio strumento, o il modo di vestire di Miles durante il periodo elettrico, per dire. Sono convinta che si debba raccontarlo, il jazz, proprio perché è una storia bella da raccontare ed è ora che si scenda un po’ tutti dal piedistallo. Personalmente, quando a volte impartisco lezioni di latino e greco ai ragazzi, mi prendo sempre cinque minuti di lezione per narrare storie di jazz: a seconda dello studente le condisco di aspetti maudit o divertenti, non importa. Il jazz non è solo una musica, è invece una dimensione culturale peculiare e va divulgata. Altrimenti finisce davvero come sostiene sempre il mio autorevolissimo collega Marco Basso, che a ogni incontro tra noi addetti ai lavori scuote la testa e dice: “Ma guardateci. Siamo un cimitero degli elefanti!” Io ci sto lavorando, e credimi: ci sono margini enormi sull’interessare al jazz le persone.

D Ti rifai a qualche storico o musicologo in particolare?

R In Italia abbiamo musicologi importanti, grandi conoscitori della materia come te, Zenni, Martinelli, Sessa, Franco, Tomatis, Cerchiari, Caporaletti, Martorella e mi perdonino tutti gli altri che in questo momento sto dimenticando. Leggo tutti con grande interesse, desiderosa di apprendere (anche in questo contesto, più cerchi di saperne più sai di non saperne nulla…). Il mio cuore però rimane legato a Barry Ulanov, con quella scrittura intrisa di letteratura, e al duo Carles-Comolli che in gioventù mi aveva garantito ottimi voti quantomeno nei temi a carattere musicale, oltre ad avermi avvicinata a un contesto storico e culturale così lontano dal mio e nel contempo così coinvolgente.

D Con quali modalità (anche personali) ti rapporti con i tuoi ‘colleghi’ giornalisti e con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?

R Per carattere tendo sempre a far sentire a proprio agio le persone con cui interagisco, spesso anche a scapito del mio benessere, dunque credo di averti risposto. Nello specifico, ho un ottimo rapporto dialettico e di confronto con il mio direttore Luca Conti, mentre è molto raro che riesca a conferire con gli altri membri della redazione. A volte scrivo loro messaggi privati, complimentandomi magari per la bellezza di un loro articolo, ma – essendo appunto tutti uomini – c’è sempre al fondo quella sensazione di apparire come una che ‘batte i pezzi’, diciamo, o comunque come chi voglia ricercare un dialogo non richiesto. In questo sì, il gap è evidente e io, che mi pongo subito come persona-scrivente-di-jazz dimenticandomi completamente di essere una donna, a volte ci resto un po’ così. Ma passa subito.

D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire ad accrescere o sviluppare una vera cultura del jazz (o sul jazz)?

R Qualora tu intenda spazi mentali, intenzioni di sviluppo allora sì, sono convinta che esistano. Poste le premesse che ho cercato di fissare nei discorsi precedenti: alziamo le terga, diamoci una mossa, individuiamo le occasioni di divulgazione e piantiamola di parlare e agire tra di noi come fossimo una grande bocciofila. Se invece intendi il lemma ‘spazio’ come occasione di incontro, allora il discorso è proprio diverso. Pensa che qui a Torino esiste un posto che viene chiamato convenzionalmente ‘Jazz Club’, mentre in realtà è un vero e proprio “Club No Jazz” tanto è fighetto e interessato soprattutto a condire le varie cene con musica ‘diversa’ (sic!). Qualcuno mi ha detto che le cose forse stanno migliorando, ma solo quando lo vedrò con i miei occhi smetterò di parlarne male. Non sono davvero sicura che in Italia esistano luoghi fisici dove il jazz possa realmente progredire e svilupparsi, ma sono certa che in molti li auspicheremmo.

D Esiste secondo te un jazz italiano a livello musicale? E uno europeo?

R Ne sono convinta, e nel mio piccolissimo cerco sempre di valorizzare il jazz italiano. Qualche anno fa, a Radio altriSuoni curavo una trasmissione che avevo intitolato JIM Jazz Intra Moenia, in cui i protagonisti del nostro jazz avrebbero potuto raccontarsi, trasmettere i propri brani o quelli preferiti, sparare a zero sul sistema o lodarne le regole. Io ero già letteralmente innamorata di una modalità jazzistica a volte assai peculiare e unica, ma in quel modo avevo anche imparato a conoscere meglio i protagonisti di quel jazz. Se andiamo ancora più indietro nel tempo, un giorno avevo ricevuto un bellissimo cd dal mio collega Carlo Pecoraro, che aveva assemblato musiche e testi in qualcosa che avrebbe potuto diventare un magnifico programma radiofonico: peccato non mi avesse consegnato anche un elenco dei titoli utilizzati, e c’era proprio un pezzo che mi faceva impazzire di cui non sapevo nulla. Ho analizzato nota per nota, e c’era questo arrangiamento sontuoso ma non pesante, la voce di un sax talmente struggente da far pensare che non potesse essere composto che da un italiano. Mi rendo conto che, a scriverlo, questo processo suoni molto più superficiale e bizzarro di quanto non fosse in realtà, ma avevo ragione io e in effetti dopo un paio di giorni riuscii a trovarne l’autore: Stefano Di Battista. Esiste dunque sicuramente un ‘jazz italiano a livello musicale’. Anche europeo, in effetti: prova a pensare a tutto il jazz scandinavo , senza voler essere banali: Bugge Wesseltoft è diverso da ogni cosa sentita oltreoceano. Oppure al nuovo jazz inglese, che so piacerti tanto, o al rispetto e alla cura attraverso la quale i francesi si accostano al jazz. Certo è indubbio: che vi piaccia o meno, esiste un jazz italiano, un jazz europeo e miscelano caratteristiche comuni alla matrice americana insieme ad aspetti esclusivi e personali. Lo trovo grandioso, un meraviglioso percorso tutto da esplorare e approfondire.

D Vedendoli tu spesso dal vivo, cosa contraddistingue l’approccio al jazz degli italiani dagli americani?

R Potrei esordire con una battuta… Gli italiani ridono sempre molto meno! Nei concerti dal vivo e soprattutto nelle foto – quelle da pubblicare sui dischi, o nelle riviste specializzate – esiste una ‘prevalenza del malmostoso’ che da anni cerco di analizzare senza riuscirci a pieno. Al di là di questa piccola critica sorridente, non sono davvero convinta che ci sia un linguaggio del corpo, una prossemica differenti. Puoi trovare sul palco una band giovane italiana, magari emozionatissima, rigidissima anche negli attacchi o negli sguardi tra sidemen, ma è pur vero che l’ultima formazione di Steve Coleman sembrava a vedersi un frammento di parata militare. Non sono tutti Han Bennick, insomma, nell’approccio, però se volessi pensare a un concerto e a un artista davvero avvolgente e coinvolgente, citerei Steve Lacy. In Italia, Dado Moroni. Spero fosse quello il tipo di approccio che intendevi.

D Come ti relazioni all’oggetto disco, anche a livello personale?

R A livello personale, una celeste relazione amorosa e reciproca che crea alcuni dissapori durante i traslochi o quando lo spazio è ristretto: più di duemila cd e moltissimi vinili che tecnicamente sono un problema, ma fanno benissimo al cuore. La collezione di vinili appartenuta a mio padre, quando l’ho ritrovata, mi aveva provocato una profonda emozione anche se non sono sicura che contenga pezzi veramente rari. Ma riscoprire la collezione Impulse!, un consumatissimo Kind Of Blue, i dischi della Fontana con le onomatopee, una copertina del Modern Jazz Quartet con all’interno il disco originale insieme a una sonata di Bach (!) è stato come un viaggio intimo, entusiasmante e per certi versi anche doloroso.

D Come penultima domanda, forse banale, ti chiedo una tua top five o top ten dei jazzmen più amati…

R Ma proprio nulla di banale! Ti compilerò volentieri un elenco e, benché preferisca di gran lunga l’opzione top ten, non è comunque abbastanza per contenerli tutti – soprattutto i musicisti italiani che amo – così come probabilmente banali – o terribilmente déjà écouté – troverai i nomi che la compongono. Ma tant’è. In primis, l’elenco non va dal più amato al meno amato. Li adoro tutti nella stessa misura: Charles Mingus, Roy Hargrove, Franco D’Andrea, Michel Legrand, Thelonious Monk, Carla Bley, Bill Evans, Wayne Shorter, Claudio Fasoli, Miles Davis.

D E, se ti va dei tre dischi da isola deserta….

R Solo tre miseri dischi sull’isola deserta? Va bene, me li farò bastare e mi porterò quelli che davvero non mi annoiano mai, nemmeno al centesimo ascolto: ci saranno l’immancabile “Kind Of Blue”, “We Wonder” del Fabrizio Bosso Quartet – il cui ascolto è costantemente una scoperta – e un disco piccolino e inconosciuto, di un’altrettanto non abbastanza frequentata cantante: una di quelle mai gnauline e affettate che non ti annoia e anzi evoca e diverte: “You and My Soul” di Carola Cora. Certo che tre sono proprio pochi… Come riserva metterò “Prana Dance” di Tom Harrell.

E un’ultima domanda o meglio un giudizio (anche sintetico) sull’Italia di oggi a livello di arte e cultura.

Ma una volta le interviste non dovevano terminare con un senso di speranza?  La situazione qui è drammatica, per non dire tragica. Ennio Flaiano direbbe anche che ‘però non è seria’, e condivido. Diamoci tutti una mossa, e quando dico ‘tutti’ intendo veramente ciascuno di noi nel proprio piccolissimo. Le potenzialità ci sono tutte: potremmo vincere noi e poco importa se non sappiamo ancora come gestire la vittoria (mi ricorda qualcosa…). Con la cultura si mangia eccome e l’arte è il nostro respiro: se non vogliamo farlo per migliorare, proviamoci almeno per non soccombere.

Enrico Rava & Lorenza Cattadori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *