A metà strada tra una rivisitazione ed un tributo all’iconica rock band britannica, il disco di Bearzatti e soci può essere considerato come una reinvenzione di un linguaggio ibrido, a cui sia il rock che il jazz fanno da sfondo, da stimolo e da propulsore.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Dopo l’affermazione del free jazz, la svolta elettrica di Miles Davis e lo sviluppo delle avanguardie europee, il jazz ed il rock si sono spesso compenetrati, fusi e condizionati. Gli approcci a questo tentativo di avvicinare delle due linee di confine sono molteplici ed hanno sovente trovato un terreno fertile più sul versante eurocentrico, talvolta avulso dalla tradizione africano-americana, nei cui ambienti talune intersezioni venivano considerate poco credibili o comunque eccessivamente forzate: si pensi al tentativo mai realizzato di conciliare le innovazioni di Davis e le istanze di Jimi Hendrix. Progetto rimasto in nuce e mai realizzato, se non attraverso un tentativo ridondante da parte di Gil Evans, in cui il musicista canadese prese in prestito le musiche di Hendrix per poi rimodularle ed adattarle ad una sintassi jazzistica troppo orchestrata ed ampollosa, dove i due stilemi risultavano pressoché sovrapposti ed usati come forme espressive puramente estetiche. Nel corso dei decenni, in ambito para-jazzistico è accaduto di tutto e di più, attraverso una moltiplicazione di tentativi tesi ad usare il rock come spinta evolutiva o, comunque, con l’idea di portare il jazz sul terreno di una contemporaneità desiderosa di espanderne il limiti idiomatici e di oltrepassare il concetto di genere a se stante, troppo legato ad una dimensione conservativa ed elitaria.

Da qualche settimana è giunto sul mercato, il nuovo progetto di Francesco Bearzatti, singolare musicista, che si caratterizza per un approccio al jazz teso solitamente a travalicare il perimetro del vernacolo tradizionale spingendosi oltre la colonne d’Ercole di una sperimentazione mai fine a se stessa o meramente estetica. L’inquietudine creativa del sassofonista friulano è sistematicamente sorgiva e genetica e si riflette pienamente nel suo recente concept «Post Atomic Zep», dove Zep sta per Led Zeppelin. A metà strada tra una rivisitazione ed un tributo all’iconica rock band britannica, il disco di Bearzatti e soci può essere considerato come una reinvenzione di un linguaggio ibrido, a cui sia il rock che il jazz fanno da sfondo, da stimolo e da propulsore. In «Post Atomic Zep» il sassofonista è affiancato da Danilo Gallo basso ed effetti per chitarra, e da Stefano Tamborrino alla batteria. Dal canto suo, Bearzatti suona anche il clarinetto, il xaphone e le tastiere elettroniche, sviluppando una serie di sonorità che talvolta fuoriescono dai tradizionali canoni sia del rock che del jazz. Queste le sue parole: «Con questo nuovo progetto ho voluto chiudere un cerchio molto importante per me, cominciato nel lontano 2005 con la pubblicazione di tre pezzi dei led Zeppelin uniti a mo’ di suite. Terminare un intero lavoro sulla musica degli ZEP e poterlo portare in tour era una cosa che avevo in mente da anni e sono felice di esserci finalmente riuscito. Mettere il distorsore sul sax e sentirsi contemporaneamente Page e Plant non ha eguali per me che sono cresciuto con questa musica. Attraverso l’improvvisazione sono in grado di rimaneggiare il repertorio dei Led Zeppelin in totale libertà e grazie all’apporto di musicisti meravigliosi come Gallo e Tamborrino la sensazione di essere una rock band è reale ».

Di certo la varietà di interessi ha sempre spinto Bearzatti ad esplorare i territori più impervi della musica contemporanea, riscontrabili anche anche nelle sue molteplici collaborazioni che lo hanno portato a suonare al fianco di Joe Lovano, Butch Morris, Louis Hayes, Ben Riley, Kenny Wheeler, Randy Brecker, Mark Murphy, Tom Harrell. Ai classici dei Led Zeppelin – forse i momenti più toccanti dell’album – quali «Stairway To Heaven» e «Going To California», sono affiancate anche alcune composizioni originali frutto di una visione compositiva ed esecutiva di tipo trasversale che mettono in luce la poliedricità di Bearzatti in grado di unire John Zorn, Jimi Hendrix e l’ultimo Coltrane: ma forse sono solo suggestioni. In realtà, le composizioni del sassofonista friulano sono due: «Intro To Heaven», un preambolo alla famosissima «Stairway To Heaven», e «Ode To JB», una straziante ballata, magnificamente divorata dalla chitarra, dove «JB» sta per John Bonham, compianto batterista dei Led. A conti fatti, l’album è una maniera del tutto personale ed inedita di operare su un certo tipo di materiale sonoro, lontana dalla clonazione caricaturale e karaokeistica, tanto da far riaffiorare in superficie, ma con differenti connotazioni stilistiche e strumentali, le atmosfere tipiche della musica di Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham, attraverso un elaborato ritmico-armonico intriso di rock-blues, ammantato da melodie immortali e sostenuto da groove scaraventati in ogni direzione con forte dispendio di energia, a tratti sbalestrati ed asimmetrici. Bearzatti, forte del supporto dei sodali, spinge i propri strumenti verso le cime tempestose della creatività, cercando di reinventare idealmente la voce di Plant, quanto meno l’essenza, mentre chitarra e batteria, dalle retrovie, danno fuoco alle polveri, specie in alcuni momenti fortemente lisergici e coattivi come «Moby Dick» e «Whole Lotta Love». Il jazz scompare nella distorsione strumentale da rock-hero, ma riaffiora a tratti dall’imprinting del sassofono o dalle nuances flautate dello xaphone. Basta ascoltare l’iniziale «Dazed And Confused», puntellata da contrafforti free-form e l’onirica ed orientaleggiante «Kashmir». Al fruitore non resta che scoprire se si tratti di un omaggio al suono di un’epoca ricollocata in un contesto di attualità o di una sfida su un terreno di certo più agevole ad un rock-jazz contemporaneo e dilatato. Implementato da un mercuriale uso della microfonazione ed dell’elettronica, capaci di estrarre dagli strumenti ambientazioni e umori perfino sconosciuti agli Zeppelin, «Post Atomic Zep» è stato pubblicato dall’etichetta doKumenta Music, nata per favorire e promuove le eccellenze artistiche del panorama musicale contemporaneo, ispirandosi a «Documenta», prestigiosa manifestazione che, dal 1955, si tiene a Kassel in Germania ogni quattro o cinque anni.

Bearzatti / Gallo / Tamborrino

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