Luciano Federighi

// di Guido Michelone //

Viareggino, laureato in letteratura angloamericana all’Ateneo di Pisa, docente universitario in California,autore di un romanzo (Cielo di terremoto) e di svariati album tra blues e canzone d’autore da In a Blizzard of Blue (1989) a By the Lonely Lights of the Blues (2015), fino a Viareggio & Other Imaginary Places(2022) in duetti con il sax alto Davide Dal Pozzolo, Luciano Federighi è però noto ai jazzofili di tutt’Italia da un lato quale collaboratore del mensile «Musica Jazz», fin dal lontano 1975 con centinaia di articoli, interviste e recensioni, dall’altro come esperto (a livello internazionale) di voci e canzoni jazz, blues, soul, gospel, pop e country, studiate in volumi come Blues nel mio animo (1979), Cantare il jazz (1986), Ella Fitzgerald (1994), Blue & Sentimental (2010), Confessin’ the Blues. Incontri e interviste con grandi voci jazz, blues e soul (2023).

D In tre parole chi è Luciano Federighi?

R Un outsider nel mondo del jazz, con una voce e una penna.

D Perché ti sei specializzato nella voce jazz e più in generale americana?

R Ho cominciato intorno ai vent’anni a scrivere di blues, e molto presto ho scoperto che i più grandi cantanti di blues – da Jimmy Rushing a Ethel Waters, da Big Joe Turner a Lou Rawls – erano anche formidabili cantanti di jazz, e che tanti cantanti di jazz (e dintorni), come Peggy Lee o Joe Williams o persino Bing Crosby, erano all’occorrenza meravigliosi interpreti di blues.

D Come nasce il tuo amore per il jazz e in particolare per le voci?

R Nasce durante l’infanzia con il primissimo amore, le canzoni e la voce di Fred Buscaglione così eccentricamente imbevute di jazz, prosegue con i dischi di Armstrong, Ellington e Ella ascoltati in salotto con mio padre (e talvolta in un locale leggendario come La Bussola, vicinissimo a casa) e quindi con il blues e il soul che mi hanno travolto negli anni del liceo.

Luciano Federighi con Irene Reid (1998)

D Come definireste la tua specializzazione? Vociologo? 

R Vociologo suona un po’ buffo ma mi piace. Mi permette di esercitare il mio innato eclettismo: le voci del jazz e del blues, ma anche quelle del soul, del gospel, del country & western, del pop tradizionale, e persino quelle degli attori del cinema americano e inglese, altra mia grande passione – la voce di Jack Lemmon, per esempio, che era anche un buon cantante di standard, o quelle inimitabili di Vincent Price, James Stewart o Lauren Bacall, molto soulful, a modo loro.

D E ti senti più didatta, critico o musicologo?

R Senza dubbio critico, ma forse anche storico della musica e della canzone americana: o, meglio ancora, scrittore dedito alla descrizione della voce cantante.

D Cosa rispondi a chi – e sono ancora molti tra i jazzofili e pure qualche critico – che il jazz vocale non è vero jazz e che sia valido solo quello strumentale?

R Potrei rispondere di ascoltare gli incontri tra Billie Holiday e Lester Young, tra Etta Jones e Houston Person, tra Al Hibbler e Roland Kirk, tra Ellis Larkins e Ella Fitzgerald, tra Bill Evans e Tony Bennett: sublime integrazione di voce e strumento in jazz. O di studiare la qualità e la logica canora negli assoli di Johnny Hodges o Gene Ammons, e quelle strumentali nel fraseggio di Dave Lambert o di Eddie Jefferson o di Mark Murphy.

D Possiamo ancora parlare di jazz nel 2024? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Certo che ha senso. Anche se sorgono dei dubbi, di tanto in tanto: a volte mi sembra che ci sia più autentico jazz negli incontri del novantenne Willie Nelson con Wynton Marsalis che nelle prove di tanti emergenti “cantanti di jazz”.

D E si può parlare di ‘canto jazz italiano’ o europeo? 

R Al di fuori della vocalità jazz nordamericana, senz’altro si può parlare (e da lungo tempo) di canto jazz britannico: stessa lingua, ma con un respiro diverso e con un approccio stilistico ed emotivo che è sempre stato ben distinto, da Cleo Laine sino a Liane Carroll. Nell’Europa continentale l’affermazione di un canto jazz legato a uno scenario nazionale è stata più lenta e faticosa ma oggi – almeno in Italia – si possono cogliere dei tratti caratterizzanti.

D Quali son  i tre-quattro dischi che ami alla follia? 

R Tre sono pochissimi, sono almeno trenta (meglio trecento) quelli che mi porterei sulla famosa isola deserta! Comunque eccone quattro di cui non potrei proprio fare a meno: A Meeting of the Times di Al Hibbler e Roland Kirk, la New Orleans Suite di Duke Ellington, Back to the Blues di Dinah Washington, Two Steps from the Blues di Bobby “Blue” Bland.

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei? In particolare nel canto?

R Anche se oggi forse si nota un certo avvicinamento di valori e di espressione sulle due sponde dell’Atlantico, direi che c’è – o c’è stata – una maggiore urgenza e naturalezza da parte degli americani, almeno finché hanno vissuto il jazz come parte integrante della propria cultura, i neri come i bianchi.

D Il jazz vocale deve parlare, attraverso i testi, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Per niente! Quanti meravigliosi, insuperabili classici del jazz vocale sono basati su interpretazioni di gioielli del Great American Songbook? Testi di Johnny Mercer, Howard Dietz, Ira Gershwin, Dave Frishberg, Lorenz Hart, certo più poetici e arguti e sognanti che politici! Esther Phillips che canta Cole Porter, Dinah Washington che canta Jimmy Van Heusen, Frank Sinatra o Ella Fitzgerald o Nat King Cole che cantano Angel Eyes… Al tempo stesso – e artisti come Oscar Brown Jr o Mose Allison o Abbey Lincoln ce lo hanno ripetutamente insegnato – non ci sono confini di natura filosofica o sociale in quello che possono scrivere e interpretare i vocalisti di jazz.

D Come vivi il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?

R Lo ascolto quando mi è possibile, sempre con gioia, lo pratico (molto marginalmente: ironicamente quasi più a livello discografico che dal vivo!) quando mi capita di cantare con musicisti di jazz della mia zona, la Versilia.

D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Osservo da umile outsider, appunto, e scopro una cultura che mi è distante e mi attrae poco. In tema puramente jazzistico, talvolta mi trovo a guardare indietro e rimpiangere l’epoca magari più semplice e sanguigna dei miei maestri, Arrigo Polillo e Bruno Schiozzi. Ma ero un giovane outsider, anche allora, con la mia fissazione sulle voci che tanti colleghi (ma certamente non Bruno, che era appassionatissimo di cantanti di jazz, è a lui che devo tante scoperte) trovavano bizzarra.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *