Chet Baker

Berendt scrive che Chet Baker è stato un musicista fondamentalmente minore, molto apprezzato dai bianchi europei con il complesso del retaggio accademico. Il jazz è stato arte molto romantica, ma non estenuata e retoricamente fine a se stessa come i fragili soliloqui di Baker.

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

Difficile negare che Chet Baker avesse un forte talento naturale come musicista, un talento che purtroppo non era sostenuto da altro. Un fenomeno, per certi versi. In questo aveva ragione Gerry Mulligan (che un’intelligenza, al contrario di Chet Baker, la possedeva eccome, e pure in abbondanza) nel definirlo «a kind of freak talent. I’ve never been around anybody who had a quicker relationship between his ears and his fingers», letteralmente « una sorta di talento fuori dal comune. Non ho mai avuto a che fare con qualcuno che avesse un rapporto più rapido tra le orecchie e le dita». Il che è evidente negli unici lavoro degni di vera menzione che Baker, musicalmente una nota a piè di pagina nella storia del costume della piccola borghesia europea del Secondo Dopoguerra, ha lasciato (fatte salve le incisioni con il quartetto e il tentette di Mulligan, in cui l’intelligenza musicale era del solo sassofonista, l’estetica di Baker era già ampiamente illustrata da incisioni zuccherine come «Chet Baker With Strings» o «Chet Baker Sings», il suo demone non aveva certo la sensibilità luciferina di Dick Twardzik, suo compagno di strada per un brevissimo tratto): «Smokin’ With The Chet Baker Quintet», «Groovin’ With The Chet Baker Quintet», «Comin’ On With The Chet Baker Quintet», «Boppin’ With The Chet Baker Quintet». Ecco, si potrebbe aggiungere «Diane», bella realizzazione assieme a Paul Bley, altro musicista dotato di un’intelligenza sconosciuta al trombettista.

Baker è stato il burattinaio di un tetro carrozzone dedicato a un caso umano, il suo: la sua sopravvivenza è stata a lungo affidata a un carro di Tespi (I carri di Tespi o padiglioni di Tespi erano teatri mobili realizzati attraverso strutture lignee coperte dei quali si servivano i guitti), in cui non era la musica a fare da protagonista, ma l’anchilosi scarsamente spirituale che dava vita a un’arte (se vogliamo chiamarla così, tanto per fare felici i collezionisti della Settimana Incom e di altri rotocalchi) per l’appunto zoppa, fragile, autocompiacente e autocompiangente, larmoyante in modo precariamente furbesco. Figlio della più povera piccola borghesia americana, Chet Baker ha saputo rielaborare, più per necessità che per sensibilità o creatività, il sogno americano per le platee piccolo-borghesi bianche europee, cosa che non avrebbe potuto fare negli Stati Uniti, in cui è la ricerca dell’innocenza a creare un immaginario artistico, non la esibita e interessata perdita di essa. Non è una questione di moralismo, Chet Baker era ben contento di portare in scena la sua abiezione e di venderla ai piccolo-borghesi bisognosi di un frisson d’audacia ammiccantemente sessuale. Nulla da eccepire, se non sui risultati di uno sfruttamento istintivo, non intellettualizzato, della degenerazione del Romanticismo che la borghesia aveva già operato da tempo, trasmettendola a una piccola-borghesia priva di eroi intellettuali, veri o falsi che fossero. Paragonare Chet Baker, ad altri jazzisti bianchi, innovatori del linguaggio come Stan Getz o Bill Evans, è un non sequitur: Baker è stato un fenomeno di costume, un finto poeta maledetto privo di grandezza che ha venduto, da piccolo capitalista sbilenco, le proprie spoglie e che sulla sua progressiva decadenza ha speculato fino all’ultimo. La sua creatività musicale, dalla muscolarità giovanile – che contornava un modello di virilità plastificato ma pure un talento musicale puramente istintivo quanto indiscutibilmente capace di brillante coerenza strutturale e di vasta ricchezza melodica – fino alla decadenza androgina esposta per lucro alla platea del voyeurismo piccolo-borghese, ha accompagnato il percorso verso l’ocaso.

Un indiscutibile story-teller di notevoli intuizioni, Baker ha sicuramente mantenuto le sue istintive qualità, pur sapendo che la platea, alla quale egli si era voluto dare non era particolarmente, appariva interessata al suo uso del blues, alla sua capacità di elaborazione tematica, al suo talento melodico, per quanto inseriti in un contesto dal vocabolario rimasto immutabile per trent’anni. Baker vendeva di sé l’immagine del deterioramento del romanticismo popolare, smerciava e svendeva un impasto di furbizia e ingenuità, era uno yankee alla corte di Re Artù ma senza il progresso apparentemente stregonesco che Hank Morgan voleva donare e divulgare, anzi egli procrastinava la sopravvivenza di un eloquio musicale logoro per quanto assai affinato nei suoi aspetti più compiacenti e consolatori, non ultimo l’approccio vocale passato dalla tenerezza tenoril-giovanile ad un’allusività in cui la fragilità originaria si era ammantata di strati corrosi d’ambiguità. L’incapacità di Baker di progredire nonostante un talento naturale di vasta portata è quanto gli ha precluso di essere altro che un modello di cultura bianca americana piegato alle esigenze di expatriate di basso conio: alla sua tanto decantata poesia, sempre più artefatta e costruita, mancava il senso prevertiano della trasformazione del sordido e del quotidiano, la sua caricatura del poeta maledetto sembrava fatta apposta per chi di Chopin coglieva solo un melodismo estenuato e non la folgorante strutturalità bachiana, per chi, appunto, pensava a Prévert in termini sentimentali, per chi abbisognava di un’estetica da boudoir che è esattamente l’opposto di quell’elemento, liberatorio e rivoluzionario persino fisicamente, ideato da ciò che comunemente si definisce jazz.

Baker era in possesso di un eccellente artigianato, non di una visione artistica. Quest’ultima sopravvive nelle intuizioni anche alla pochezza eventuale del suo ideatore, l’artigianato necessita di una integrità psico-fisica per poter replicare le creazioni altrui. Ma il pubblico piccolo-borghese di Baker non si perdeva in tali dettagli, voleva poter sfiorare il freak, l’outcast, il dropout per condividere temporanee emozioni fintamente oppiate, per ricreare nel salottino di casa o nello spogliatoio «l’atmosfera», «l’intimismo», «il sentimento», «la disperazione», lo spazio angusto della cella trasformata in night-club, il sogno da non realizzare mai, il jazz come arte trasgressiva alla portata anche del bianco europeo senza dover trapiantarsi nell’alieno Nuovo Mondo. Un Dorian Gray incapace di invecchiare mentalmente oltre l’adolescenza, staccato da un fisico provato: un’arte immatura, anche squisita talvolta e per caso, ma recitata in modo da parere altro. Al bisogno del romanticismo serializzato, da supermercato, di una piccola-borghesia in fase di social climbing Baker recita la parte dell’eroe, dell’homme fatal, offre tutta la gamma byroniana dei Giaour, dei Corsari, dei Manfredi, dei Lara, mima un quadro di Delacroix, si fa De Quincey e Berlioz al contempo, forse porterebbe al guinzaglio un’aragosta come Gérard de Nerval ma è puro inganno. Del romanticismo più deteriore egli offre casomai le insidie di Melmoth, è un Jean Sbogar che sacrifica il talento a un Abate Montoni qualsiasi. Grande musicista? Quasi. Grande artista? Neanche per sogno.

Chet Baker

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