Biagio Bagini

// di Guido Michelone //

Gli anni Venti, con le lunghe notti parigine tra musica classica e jazz, insieme agli scrittori americani della ‘generazione perduta’, guidati da un Ravel stralunato dai blues e sulle tracce di Josephine Baker. Poi la polvere degli anni Trenta, con un viaggio nella pancia dell’America, lungo le strade della crisi, dei nemici pubblici, dei blackfaces e del sogno californiano, seguendo la mitica Route 66. La vicenda umana e artistica di Aaron Copland come due lenti degli stessi occhiali, quelli di un compositore moderno che ambisce a dare voce e identità all’America più vera. E che odia, invidia, ammira il più affermato dei nuovi talenti: George Gershwin”.

Odio Gershwin il nuovo romanzo biografico dello scrittore novarese Biagio Bagini, edito Oligo (Mantova), quasi fatto apposta per il centenario della Rapsodia, appare un libro a tesi. Benché evocato dal titolo, non è propriamente un romanzo su George, bensì sul sentimento negativo del compositore Aaron Copland (1900-1990) all’epoca dei fatti giovane di ‘quasi successo’ con una musica sperimentale, che in seguito tramuterà in qualcosa di popolare o meglio di autenticamente classico-americano; l’uomo e l’artista Copland guarda, fra disprezzo e invidia, alla fama e i soldi del collega anch’egli ebreo newyorkese della working class di appena due anni più giovane di lui.

E il romanzo inizia proprio con l’espressione ‘odio Gershwin’ ripetuta da Aron al coinquilino Harold Clurman (regista e teatrologo) mentre a Parigi legge su un giornale americano di tre mesi prima l’esaltazione della celebre serata all’Aeolian Hall, dove, per la prima volta, viene presentata la Rhapsody In Blue diretta da Paul Whiteman. Copland si lamenta altresì per il fatto che Gershwin sia sulla bocca di tutti, perlomeno nei circoli intellettuali e nei salotti buoni, da Montmartre a Montparnasse, dalla Rive Gauche alle case di artisti francesi, prese d’assalto da scrittori, pittori, attori, sceneggiatori e appunto compositori da ogni angolo degli Stati Uniti. E c’è persino chi, nel capitolo successivo, resta folgorato quasi come San Paolo sulla via di Damasco: si tratta nientemeno che di Maurice Ravel che dopo lo spettacolo della revue nègre con la cantante/ballerina Joséphine Baker si innamora perdutamente dell’anima e del corpo sinuoso della giovane creola, la quale danza scatenata e vestita solo di un casco di banane in prossimità delle zone intime.

Poi negli anni Trenta la seconda parte di Odio Gershwin si apre con il lungo tragitto percorso in automobile, da New York a Los Angeles per approdare alla ‘Mecca del Cinema’, assai remunerativa anche per i musicisti adattabili alle colonne sonore ligie alle esigenza (per non parlare di diktat) dei tycoon dei film hollywoodiani. Prima dell’incontro con il Gershwin miliardario e di un memorabile doppio a tennis – addirittura accanto a un Arnold Schoenberg concentratissimo su palline e racchette – nella sontuosa villa californiana, il tragitto ‘on the road’ simboleggia un classico viaggio iniziatico nell’altra America: quella selvaggia e poverissima della crisi profonda e della grande depressione: è un popolo che muore di fame, ma che non rinuncia a svagarsi cantando in coro attorno a un bivacco notturno oppure, una volta stabilitosi in città ad amare il grande schermo, magari per assistere a uno dei musical, il cui score magari porta la firma dell’odiato Gershwin; ma l’incontro fra quest’ultimo e l’ormai sempre più disponibile Copland sarà illuminante.

Ma Bagini non ne parla, così come tace giustamente sull’imminente scomparsa di Gershwin a soli 39 anni: Copland gli sopravviverà per oltre mezzo secolo, prendendone simbolicamente il posto grazie a una serie nazional-popolare di balletti e poemi sinfonici come Billy The Kid, Rodeo, Appalachian Springs, El salon Mexico. Odio Gershwin infatti termina con una proiezione nel presente/futuro rispetto alle vicende narrate: circa quarant’anni dopo gli Emerson Lake And Palmer chiederanno al vecchio Aaron di poter utilizzare la loro versione prog rock di Fanfare For The Common Man, uno dei tanti classici americani che mai esisterebbero senza la rivoluzione vellutata di un Gershwin in perenne oscillazione.

E qui occorre tornare al discorso del libro a tesi, a cui s’accenna poco sopra: innanzitutto per Bagini il jazz, il blues e il folk sono le musiche necessarie a costruire un’identità artistico-popolare dell’America non solo a livello di musica, ma a proposito di un immaginario collettivo destinato a resistere nel tempo (di cui Gershwin è ovviamente l’inventare: in vita il deus ex machina, post mortem la leggenda assoluta). Ci sono poi, nel libro, quattro elementi comuni – il moderno, la città, i viaggi, il tennis – che spingono i protagonisti Copland, Ravel, Schonberg e soprattutto Gershwin – quattro musicisti in rappresentanza della rivoluzione novecentesca nella musica colta – a cimentarsi in una ‘lunga partita musicale’ tra l’Europa e l’America quasi lungo l’intero Novecento.

Bagini in tal senso tira in causa diversi elementi culturali che già rielaborati da Gershwin, condizioneranno gli altri musicisti, tranne l’enigmatico Schonberg, fedele alla propria dodecafonia, che, paradossalmente, sarà il linguaggio maggiormente attrattivo per alcune radicali tendenze del jazz contemporaneo dagli anni Cinquanta a oggi. Il jazz della Baker – nella cui compagnia c’è pure il clarinettista Sidney Bechet è a sua volta determinante per il Bolero raveliano, mentre la scena, sulla Route 66, in cui Copland assiste a un dilettantesco spettacolo di minstrel show con i cosiddetti blackface (bianchi che si dipingono il volto di nero per imitare i musicisti afroamericani), è un diretto omaggio a Gershwin, che farò tesoro di quella cultura sonora afroamericana in molte partiture (non ultima Porgy And Bess).

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