Ugo Sbisà

di Guido Michelone

D In tre parole chi è Ugo Sbisà?

R Mi considero un uomo di Levante. Dalla famiglia paterna, residente in Puglia, ma di origini istriane, ho ereditato la passione per il giornalismo e per la musica. Da quella di di mia madre la multiculturalità: il mio nonno materno era un levantino napoletano con attività nel Dodecaneso e in Turchia, la nonna era invece greco-bizantina, di conseguenza in famiglia, oltre che in italiano, si parlava in greco, turco e francese e a tavola si consumavano pietanze orientali della tradizione greco- ottomana, ma anche italiana ed ebraica. Se poi aggiungiamo che sono nato e vivo in una città come Bari, resa ecumenica dalla presenza di San Nicola, credo che l’approdo al jazz, musica multiculturale per eccellenza, fosse inevitabile.

D Di recente hai scritto un libro con Livio Minafra: anzitutto com’è la collaborazione con un jazzista nel redigere un saggio musicale?

R Dialogo, confronto, talvolta anche visioni estetiche differenti, ma non per questo inconciliabili. Nel caso specifico, essendo amico della famiglia Minafra da una vita, posso dire di aver conosciuto Livio sin da quando era nel grembo di sua madre. Gli oltre vent’anni di età che ci separano ci hanno consentito di integrare conoscenze ed esperienze, per non dire che sulla scelta di alcuni artisti e titoli più lontani nel tempo, la mia “memoria storica” ha avuto il suo peso.

D Ora parlaci del volume: quali sono i punti di forza secondo te?

R Cominciamo col dire che non è una storia del jazz europeo, argomento sul quale esistono anche in Italia poche pubblicazioni, ma decisamente molto ben realizzate. L’idea di Livio Minafra, alla quale sono stato chiamato a collaborare, era di realizzare un manuale snello e accattivante che potesse stuzzicare la curiosità di chi del jazz europeo sa poco o nulla, suggerendo degli ascolti discografici che potessero servire da stimolo per ulteriori approfondimenti. In questo senso, mi verrebbe definirlo un volume più “pensato” che “scritto”, dal momento che lo abbiamo suddiviso per nazioni o aree geografiche dedicando delle schede molto sintetiche alle scene dei singoli Paesi o ai personaggi prescelti. La scelta è stata determinata dalla consapevolezza che ormai si legge sempre meno, per cui abbiamo cercato di utilizzare con la parola scritta la stessa formula che si usa sui social: grafica accattivante, immagini e colori (le copertine dei dischi suggeriti) e testi molto brevi. Per nessun disco abbiamo previsto delle note critiche, indicando solo anno di registrazione, formazioni e autori dei brani. I testi sono stati pubblicati sia in italiano sia in inglese, nell’auspicio che la pubblicazione possa circolare anche fuori dai confini nazionali e devo dire che la cosa ci ha già molto aiutati nell’ottenere recensioni e giudizi (peraltro positivi) sia in Europa, sia negli Stati Uniti. Vorrei anche aggiungere che, in ogni modo, all’origine di questo volume c’è anche la sintesi della nostra esperienza di docenti e la consapevolezza che le nuove generazioni di studenti cominciano ad avere qualche problema con la storia passata, che non è necessariamente quella più antica. Per un ventenne che oggi studia jazz in Conservatorio, persino gli anni ’80 e ’90 del Novecento sono un universo sconosciuto e noi che invece li abbiamo vissuti non dobbiamo mai commettere l’errore di dare per scontato che le esperienze, non solo musicali, di quell’epoca debbano fare necessariamente parte di una memoria collettiva e condivisa anche dai più giovani. A ogni cambio di generazione, si perde un pezzo di memoria. Nel nostro piccolo, abbiamo cercato di preservarla e, se possibile, di trasmetterla agli studenti. Questo, ad esempio, è il motivo per cui – rispettando la regola di non indicare mai più di due album per artista – abbiamo cercato di scegliere titoli il meno possibile recenti, indicando in alcuni casi quelli che meno ci si aspetterebbe. L’obiettivo principale era di stimolare la curiosità.

D Domanda inevitabile cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Le motivazioni sono storiche. Lo schiavismo come è stato vissuto nell’America latina in epoca barocca e poi nel Nordamerica, è cosa molto diversa dal modo in cui lo ha praticato l’Europa. Il libro “Il chiaro e lo scuro” curato da Gianfranco Salvatore è molto illuminante in questo senso, pur non occupandosi di jazz. Passando invece alla questione più squisitamente artistica, l’Europa è stata più aperta nei confronti delle avanguardie, cosa che non sempre si può affermare degli Stati Uniti, per non dire che, esclusa la parentesi della Seconda guerra mondiale, il Vecchio Continente si è dimostrato più amichevole e meno razzista nei confronti dei jazzisti americani: lo dimostra il gran numero di musicisti, da Sidney Bechet a Kenny Clarke, da Albert Ayler a George Russell, Kenny Drew, Art Farmer e tanti altri, che hanno scelto di vivere in Europa, definitivamente o per lunghi periodi. E spero sinceramente che, malgrado l’aria pesante che si respira in questi ultimi anni, non si cambi indirizzo. Per quanto invece riguarda l’approccio con lo studio della materia, gli americani a mio avviso preferiscono quello documentale e cronachistico, avendo peraltro la fortuna di poter attingere il materiale direttamente sul campo. E in questo sono imbattibili. In Europa adesso si predilige invece un taglio più musicologico che ha visto per lungo tempo la Francia come apripista, prima che anche l’Italia dimostrasse di poter autorevolmente dire la sua. Non faccio nomi per non dispiacere nessuno, ma credo che negli ultimi 30 anni la nostra produzione “scientifica” sia stata di livello molto alto. Per ciò che invece concerne più direttamente la prassi musicale, mi ricollego alla domanda successiva.

D E si può davvero parlare di ‘jazz europeo’? E, se sì, in che modo?

R Credo che il nostro libro – ma anche il tuo o quello di Francesco Martinelli – dia una risposta affermativa. Riguardo al “modo” direi che potremmo sintetizzarlo in una sola parola: “identità”. Inizialmente l’Europa ha dimostrato di saper apprendere il linguaggio del jazz d’Oltreoceano e di poter dialogare con i grandi solisti afroamericani. Poi però lo ha fatto proprio metabolizzandolo e ovviamente ha iniziato a ricollegarlo alle proprie radici – che non sono ad esempio quelle del blues -, alla propria storia non solo musicale, ma anche culturale, politica e sociale. Credo che Django Reinhardt, in quanto padre del genere manouche, possa essere considerato un pioniere del linguaggio del jazz europeo – e non del jazz suonato in Europa, che è cosa diversa – anche se bisogna riconoscere che, quando ci accostiamo ai cosiddetti radicali, si può dire che il loro unico punto di contatto la musica dei colleghi americani resti la comune pratica dell’improvvisazione. Che notoriamente non è una prerogativa esclusiva del jazz. In Europa poi il jazz ha attinto dalle cosiddette “scuole nazionali”, abbiamo ascoltato di tutto, jazzisti dell’Europa dell’Est, delle ex Repubbliche sovietiche, ad esempio, che componevano e improvvisavano attingendo dalle culture dei propri Paesi, dalle loro tradizioni musicali classiche e popolari: più Europa di così.. E che dire delle esperienze di Grecia, Turchia, Balcani? Nel nostro libro, ad esempio, abbiamo ampliato l’idea di Europa allargandola anche a Paesi non ancora comunitari. Del resto, per chi vive affacciato sul Mediterraneo, forse è più facile trovare un Dna in comune con un abitante di Istanbul o di Tirana che non con uno di Helsinki o di Oslo. Il che non significa escludere qualcuno, ma invece includerne molti altri.Alla fine dei conti, il jazz ha dimostrato di essere un linguaggio, un vero e proprio modus operandi, confermando la famosa affermazione di Jelly Roll Morton: con il jazz si può suonare qualunque melodia.

D Perché certo jazz europeo, attraverso i suoni, dagli anni Sessanta affronta (più degli americani) temi politici, ideologici, ambientali, filosofici?

R Sono nato nel 1961 e sono stato adolescente durante i cosiddetti Anni di piombo. Ricordo che nel corso degli Anni ’70 moltissimi gruppi di jazz si ascoltavano grazie all’Arci o alle Feste dell’Unità, mentre erano davvero poche le società di concerti che dedicavano spazio a questa musica. Questo significava che, inevitabilmente, pronunciare la parola “jazz” implicasse una presa di posizione o una identificazione politica. Del resto un certo jazz veniva visto come un vessillo di libertà, un grido di protesta e veniva apprezzato per il suo essere “altro” rispetto a linguaggi considerati più omologati. In Italia, dagli Anni ’60 il jazz ha tratto ispirazione dalla protesta dei neri d’America (penso a “Colloquio con Malcolm X” di Giorgio Gaslini), dalla ribellione dei giovani americani contro l’assurda guerra in Vietnam (Enrico Intra col suo “To the victims of Vietnam”), dal vento che spirava dai movimenti degli studenti dell’Università di Berkeley e che poi arrivò anche da noi a fine decennio col Maggio francese e il Sessantotto. Lontano dall’essere una musica alla moda, il jazz si identificava con uno stile di vita alternativo, a prescindere dalla tendenza tutta italiana a politicizzare qualsiasi cosa. Dischi come quello – per me leggendario – del Concerto della Resistenza registrato nel 1974 dal quartetto di Gaslini alla Statale di Milano, trascendevano il semplice significato musicale. Direi che in una società come quella europea, che non aveva mai vissuto direttamente il dramma della discriminazione legata al colore della pelle, del segregazionismo come in America o in Sudafrica, il jazz ha finito per supportare altre cause. Poi non dobbiamo dimenticare che a differenza degli Stati Uniti, dove essere comunisti o comunque di sinistra viene considerato un peccato mortale, l’Europa ha ben altre storie e tradizioni culturali e filosofiche nelle quali l’arte militante affonda le radici. Del resto, il jazz si suonava tanto nell’Europa occidentale quanto oltre la Cortina di ferro, sebbene con modalità molto diverse.

D Possiamo sempre ‘sperare’nel jazz? Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Possiamo e dobbiamo sperare, nel jazz come in tutto ciò che favorisce la creatività, che sa raccontarci il passato e il presente senza nostalgia, ma volgendo lo sguardo al futuro. Il termine jazz ha senso se siamo in grado di dare anche nuovi significati a vecchie parole, se sappiamo accettare che la musica e i musicisti possano prendere direzioni diverse da quelle che vorremmo o che ci aspetteremmo. Ogni volta che i critici hanno creduto di aver individuato quale sarebbe stato il jazz del futuro, hanno fatto la fine dei francesi sulla linea Maginot: presi alle spalle. Gli esempi non mancano.

D Andando a ritroso, come nasce la tua passione per la musica? C’è un ricordo della tua infanzia? E i tuoi gusti ora nel mondo del jazz?

R La passione per la musica nasce in casa, con mio padre, giornalista a tempo pieno dedito anche alla critica musicale. Le sue cronache hanno raccontato sessant’anni di vita musicale pugliese e, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare un solo momento della mia infanzia senza una melodia, che fosse un concerto o anche solo un disco sullo stereo di casa. Da piccolo ascoltavo la cosiddetta musica classica, poi decisi di studiare il violino che abbandonai per la tromba non appena venni folgorato dal jazz. Ho scoperto questa musica intorno agli undici anni e non l’ho mai più lasciata, facendola diventare un motivo di vita. I ricordi sono tanti, considerato che ho vissuto il “privilegio” di andare ai concerti sin da bambino, recandomi puntualmente nei camerini, dove mio padre mi portava a conoscere gli artisti, molti dei quali erano suoi amici, da Nino Rota a Giorgio Gaslini. Oggi i miei gusti sono onnivori, ascolto di tutto. Ho ovviamente le mie preferenze e in campo jazzistico resto legato ai personaggi più significativi nella mia formazione: Davis, Rollins, Coltrane, Coleman fra i tanti. E ancora George Russell, Carla Bley, ma con i miei studenti dedico molte lezioni alla conoscenza della New Thing, avvicinandoli a personaggi come Albert Ayler, Cecil Taylor o l’ultimo Coltrane, perché ognuno di loro ha contribuito alla formazione della mia visione estetica di questa musica e anche dell’esistenza. Fortunatamente il lavoro mi porta a dover ascoltare di tutto e questo mi aiuta a evitare il rischio di rinchiudermi nel passato.

D Come molti critici jazz, dopo tanto giornalismo sei passato all’insegnamento: vuoi parlarcene?

R In realtà rappresento un’anomalia, perché ho sempre vissuto di giornalismo, prima come collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, di Musica Jazz, della Rai, poi sono entrato a tempo pieno, da professionista, nella redazione Spettacoli della Gazzetta del Mezzogiorno e ho continuato a occuparmi di musica. Due anni fa ho avuto l’opportunità di un cambiamento che ho colto al volo e sono passato a insegnare Storia del Jazz al Conservatorio di Bari. In realtà è una materia che insegnavo da vent’anni con dei contratti sia a Bari, sia a Monopoli, Lecce e Matera, ma poi ho preferito trasformare l’insegnamento nell’attività principale, continuando a scrivere sul giornale come collaboratore. La vita del redattore in un quotidiano è usurante e soprattutto ti tiene incollato al desk. Sto lentamente riassaporando una libertà che mi mancava e che mi consente di tornare a scrivere testi per lavori di teatro musicale, libri, oltre che seguire conferenze e dibattiti, talvolta anche da semplice spettatore.

D Come vivi il jazz in Italia anche in rapporto alle vostre esperienze sul territorio?

R Non per fare la laudatio temporis acti, ma mi mancano gli anni in cui, da giovane giornalista seguivo festival e concerti al seguito dei colleghi anziani dai quali avevo tanto da imparare e che ora non ci sono più. C’è stata una stagione irripetibile durante la quale, se si andava a un festival del jazz, si poteva essere certi che il jazz lo si sarebbe ascoltato ogni sera e non sarebbe stato una parola vuota. Oggi provo un po’ di sconforto quando mi reco a seguire qualcosa fuori regione e noto di essere uno dei pochi giornalisti della carta stampata. Del resto ormai anche la classica recensione, che un tempo era un’occasione di confronto e persino di discussione, viene intesa dai giornali come un inutile spreco di spazio. Fortunatamente in Puglia siamo riusciti a preservare qualche spazio in più per mantenere viva la cosiddetta coscienza critica. Rispetto alla scena musicale, direi che la qualità è molta, ma che vive in un rapporto di inversa proporzionalità con la visibilità. Quello che invece non mi piace è l’abuso del termine “progetto” col quale vengono fatte circolare anche cose non proprio memorabili. Servirebbe un po’ più di coraggio e meno ricerca del consenso a tutti i costi.

D Cosa mi dici dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Se parliamo di cultura in generale, mi preoccupa molto l’eccesso di autoreferenzialità che caratterizza la nostra epoca. Si vive troppo in circoli chiusi, quasi esoterici e impermeabili alle realtà esterne. E la conseguenza, tra l’altro, è che la gente si allontana, legge sempre di meno, non sa distinguere notizie da fake news, non è più capace di andare oltre il contingente e finisce per limitare da sola i propri orizzonti. Mi preoccupa la perdita della memoria collettiva, l’ignoranza del passato, i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti e non solo nella scarsa qualità della nostra vita politica. Quando ero al liceo, difficilmente le lezioni di Storia andavano oltre la Seconda guerra mondiale; parlare del Vietnam era un’assurdità. Mi chiedo, quanti della generazione Z saprebbero dire chi era Aldo Moro e come è morto? Se andiamo a teatro, ai dibattiti, alle presentazioni dei libri, ci accorgiamo che l’età media delle platee è sempre più alta e che alla fine incontriamo quasi sempre le stesse persone. Ecco, non voglio generalizzare ovviamente, ma credo che dovremmo davvero preoccuparci davanti a quelli che non sono più dei semplici indizi. E faremmo anche bene a chiederci: cosa abbiamo fatto noi, che ora ci lamentiamo, per evitare che tutto questo accadesse?

Ugo Sbisà

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