Un intelligente album free form, dematerializzato rispetto al modello di composizione tradizionale, in cui fisica sonora e fisicità espressiva si mescolano armonicamente e dove il prodotto finale è superiore alla somma delle singole parti.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Analizzando il jazz nelle sue espressioni molteplici e sul terreno di una multidirezionalità interpretativa, si potrebbe ricorre a qualunque disciplina dello scibile umano. Nel caso di «Gavagai», progetto bipolare nato dal morganatico artistico tra Michele Fattori e Marcello Sebastiani, ci viene in aiuto la fisica. Ovviamente, siamo sul piano inclinato di una pura suggestione che travalica ogni relazione di natura musicologica. Essendo le corde della chitarra e del basso di tipo percussivo-pressorio, si potrebbe far riferimento ad una legge fisica, al fine di comprendere il senso di un costrutto sonoro a schema libero, dove la pressione creativa venga esercitata in uguale misura in ogni punto. E qui potrebbe entrare in scena il cosiddetto «Principio (o legge) di Pascal», che parla di «una variazione di pressione che esercitata in un punto qualsiasi di un fluido viene trasmessa inalterata a ogni suo altro punto e in ogni sua direzione». Si pensi alle dita dei musicisti che esercitano sulle corde dello strumento una pressione ritmica, oppure a strappo, che determina la natura delle note singole o degli accordi, da cui scaturisce il flusso sonoro. Non si tralasci neppure un altro dettaglio fondamentale: in in duo jazz il rapporto non è circolare, come potrebbe avvenire in altri format più articolati. Per contro, tutto tende a confluire verso un centro gravitazionale da cui la pressione sonora – da intendersi come atto esecutivo – si dipana in ogni direzione, specie se si agisce sulla scorta di una liquidità creativa in stile libero. Il concept sonoro elaborato da Fattori e Sebastiani si attaglia perfettamente a tale dimensione, ossia sviluppandosi attraverso un by-play sistematico che determina un atto compositivo quasi in tempo reale.

L’album «Gavagai», il cui titolo, dal significato oscuro, un enigma avvolto in un mistero, diventa il manifesto programmatico di un progetto che non intende dare punti di riferimento precisi nella sua implementazione ritmico-armonica. Esiste solo un centro propulsore dato dal legame nevralgico fra i due sodali che, step by step, emana una tensione ideativa che si proietta in tutti i punti dello spazio compositivo. Sia che si tratti di alcuni standard, completamente rimodulati ed interpolati dalle nuove dinamiche espressive, che di originali firmati da Fattori e Sebastiani. L’iniziale «Pithecanthropus Erectus» di Charles Mingus sembra riemergere dal suo brodo primordiale come una creatura aliena che assume progressivamente le sembianze di un ominide, il quale si regge sulle gambe. Pur ritrovando a tratti il senso dell’orientamento blues, specie nella parte conclusiva, l’impianto sonoro rispetto all’elaborato primigenio, privato della sua teatralità orchestrale, viene scarnificato e riportano al suo nucleo essenziale, su cui chitarra e basso innestano una serie di divagazioni a schema libero. «Blue In Green» di Miles Davis (da Kind Of Blue), originariamente una ballata chiaroscurale, quasi ambient e dalle connotazioni fortemente liriche, tra le mani di Fattori e Sebastiani diventa un racconto sospeso ed onirico di tipo newaging, tendente a dileguarsi in mare magnum di suggestioni extrasensoriali. Per tutta risposta, arriva un ottimo componimento, il primo in ordine di apparizione firmato dai due sodali, «Triptych Suite», frammentato in tre atti: «Other Blue Seas», «Yellow Ants» e «Dance Of The Red Hermit Crabs. I titoli: «Altri mari blu» «Formiche gialle» e «La danza dei granchi rossi» sono la rappresentazione scenica del tessuto connettivo e del metodo esecutivo che lega l’idea di un commento sonoro documentaristico di tipo naturalistico sviluppato mentre le immagini scorrono simultaneamente su uno schermo.

«Big Blues» di Jim Hall stabilisce un terzo ed ultimo contatto con al storia del jazz, ma senza attardarsi troppo a sbirciare nello specchietto retrovisore. In questo caso, le strutture armoniche sono meno dilatate, pensanti e virtuosistiche, ma più dinamiche e pressanti, con il flusso dinamico che si espande in più direzioni, talvolta asimmetriche e meno irregimentate nel vincolo della partitura. «Ishtar» è un costrutto dalle linee di basso arabescate che introducono un’aura di mistero, mentre la chitarra, ammiccante e flessuosa, guarda ad Oriente tra Mediterraneo e Mesopotamia. «Lydia» mostra le sembianze di una ballata sofferente, mentre la chitarra intesse una piacevole melodia dal gusto antico, in cui passione e sentimenti fanno cornice al lamento del basso arcuato. «L’Invitation» au Voyage» è un allegretto che fa pensare ad una danza ancestrale, dove le perifrasi strumentali e i cambi di mood rimandano alle tappe di un itinerario che si snoda attraverso paesaggio esotici perfettamente descritti dal voluto contrasto fra i due strumenti a corda. In conclusione la title-track, «Gavagai» che suggella un’idea di progressione libera multistrato e di evidente un frattura con il componimento formale di struttura a canzone, esercitando sulle corde una pressione ideativa multidirezionale con improvvise evoluzioni a briglie sciolte. «Gavagai» di fattori e Sebastiani, registrato al Bess Studio di Pescara e pubblicato da Notami Jazz, è un intelligente album free form, dematerializzato rispetto al modello di composizione tradizionale, in cui fisica sonora e fisicità espressiva si mescolano armonicamente e dove il prodotto finale è superiore alla somma delle singole parti.

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