«Hortus Del Rio» non è un disco rivoluzionario, ma diventa innovativo nella capacità di tradurre molte lingue sonore in un linguaggio contemporaneo legato all’attualità del jazz.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Parafrasando il sommo poeta il quale scriveva «Poscia che Costantin l’aquila volse contr’ al corso del ciel», si potrebbe dire: «Poscia che Stan Getz il jazz volse contr’ al corso del ciel», ossia dopo che Stan Getz portò il simbolo del jazz da Nord a Sud, da quel momento in poi il Brasile divenne l’altra faccia della luna trasformandosi in un deposito di idee, stimoli e suggestioni per i jazzisti di ogni ordine e grado. «Hortus Del Rio» è un album dal titolo alquanto emblematico, ma non riduttivo ed esaustivo all’interno del solito contenitore «ruffianotto» di classici bossa nova et similia cantati e riadattati ad un habitat jazzistico più o meno ammiccante. Per contro, il pluripremiato bassista Dario Piccioni fa della megalopoli brasiliana uno scenario ideale sul quale proiettare il suo costrutto sonoro solidamente piantato in humus jazz dai cromatismi molteplici. Non caso, su nove delle composizioni contenute nel disco, sette sono farina del suo sacco, mentre l’idea di un Brasile pittoresco e da cartolina turistica finisce per disperdersi nella «grande bellezza» di Roma, città inclusiva e capitale del mondo e di ogni mondo possibile che prende presto il sopravvento a livello ispirativo, mentre sullo sfondo potrebbe comparire «l’Hortus Mirabilis» di Trastevere. Spiega Dario Piccioni: «Hortus Del Rio rappresenta la passeggiata nel parco, ovvero uno sguardo sulla città e l’ambiente che mi circonda, alla ricerca di nuovi personali scenari poetici. Da ciò ne è scaturito, mi auguro, un affresco sonoro originale di Roma: una città autonoma e transculturale, con i suoi templi nascosti, i suoi giardini, ricca di luoghi di libero scambio di idee».
Pubblicato da Filibusta Records «Hortus Del Rio» di Dario Piccioni è in primis una somma del background del bassista romano che si sostanzia attraverso un insieme di influenze: dal jazz, alla world music, dal progressive rock all’alternative pop e dalla musica brasiliana all’improvvisazione, contemporanea. La genetica ecletticità di Piccioni è enucleabile anche dall’uso strumentale plurimo attraverso il quale egli si cimenta e dove, a seconda dello stile compositivo, utilizza il contrabbasso, il basso elettrico e perfino il basso acustico in un brano in solitaria senza accompagnamento. Fondamentali, quali alimenti nutrivi del progetto risultano i suoi sodali: Vittorio Solimene al pianoforte e al fender rhodes, Michele Santoleri alla batteria ai quali si aggiungono in quattro brani Antonello Sorrentino alla tromba e in un brano e Veronica Marini alla voce. Il contesto ideale dove vengono sviluppate le dinamiche e le tematiche compositive è di tipo urbano, nel quale convivono elementi della tradizione e delle contemporaneità in un coacervo di ritmi, suoni, voci e colori, dove le melodie e i groove s’intensificano progressivamente attraverso l’apporto di culture molteplici provenienti dai quattro punti cardinali della musica. In onore del titolo «Hortus Del Rio» non mancano incursioni in uno specifico territorio come quello della musica brasiliana di Hermeto Pascoal, Egberto Gismonti e João Donato, anche se le regole d’ingaggio tipiche restano ferme nella giurisdizione territoriale del jazz espanso di tipo contemporaneo.
L’opener «The Wizard’s Castle» si caratterizza come un biglietto d’ingresso ad un castello di di note e di accordi in verticale, dove convivono molte anime provenienti dagli angoli più remoti dello scibile sonoro, in cui un’ottima sezione ritmica e poliritmica incanala il piano in effluvio tensioattivo. A seguire «Green Cocoa», un altro componimento meticcio, giocato su una serie di contrasti: dopo l’introduzione del basso, la tromba diventa il perfetto io-narrante con forti inclinazioni al racconto quasi paesaggistico che, al cambio di passo, sembra ritrovare gli angiporti di una città in penombra, su cui l’intera sezione ritmica guidata dal piano Rhodes ammansisce i toni della tromba che diventa più esplorativa, tanto da muoversi in maniera flessuosa e serpeggiante. «Animali Notturni», come dire: nomen omen. Lo scenario è la notte, mentre la tromba «mutizzata» canta di amori e passioni sotterranei, nascosti o celati dall’oscurità. Da parte sua, il piano riempie millimetricamente gli interstizi e favorisce il cambio di passo fino all’alba di un nuovo giorno. «Nabu» è un crocevia ritmico-armonico ad alta energia solare sostenuto da un coinvolgente groove afro-latino. «Carinhoso», a firma Alfredo da Rocha e Viana Filho, è viaggio chiaroscurale in una dimensione completamente solitaria e monosensoriale, locupletata dal basso acustico del band-leader. «Caffè Tevere» ha le sembianze di un piccolo gioiellino di bop moderno in cui la tromba va quasi in overclocking e dove l’immenso fiume Hudson si trasforma nel biondo Tevere, mentre la zampillante progressione pianistica sembra planare e scivolare sulle sue acque. «Falling Grace» di Steve Swallow è una struggente song in stile bossa arricchita dal vocalizzo dallo stesso Piccioni. In conclusione, «Oak Song» un perfetto gioco d’insieme basato sull’incedere iniziale di una tromba dai cromatismi tenui e vagamente cool, seguita, al cambio di mood, da una propulsione ritmica sine die proveniente dalla retroguardia, basso e batteria, su cui il pianoforte disegna onde concentriche. «Hortus Del Rio» di Dario Piccioni non è un disco rivoluzionario, ma diventa innovativo nella capacità di tradurre molte lingue sonore in un linguaggio contemporaneo legato all’attualità del jazz.