// di Guido Michelone //

Così, a bruciapelo chi è Vincenzo Staiano?

È il pizzaiolo del Papa, secondo Google, Ah Ah Ah! Un promoter di eventi culturali, un neo-saggista e l’attuale direttore artistico del Festival Internazionale del Jazz Rumori Mediterranei.

Mi racconti ora il primo ricordo che hai del jazz da bambino o ragazzo?

Al jazz mi sono avvicinato solo quando mi sono iscritto all’università. Da bambino ascoltavo la lirica (costretto da mio padre, melomane e, per breve tempo, clarinettista della banda del paese), poi sono passato al rhythm & blues, al progressive rock, alla fusion. Alla fine è arrivato John Coltrane che è il musicista che ho ascoltato di più all’inizio della mia passione per il jazz.

Che studi hai fatto e quali sono stati i tuoi ambiti professionali?

Mi sono laureato in Lingue, Letterature e Istituzioni dell’Europa Occidentale all’Istituto Universitario Orientale di Napoli e ho studiato nel Regno Unito dove mi sono recato parecchie volte come studente, da giovane, e come tour leader successivamente (ambito professionale che mi ha portato in molti altri paesi del mondo). Ho insegnato Lingua e Lettera Inglese nei licei e, parallelamente e per circa 43 anni, ho condiviso questa attività con quella di promoter di eventi culturali per conto dell’Associazione Culturale Jonica ONLUS e l’ISMEZ (Istituto Nazionale per lo Sviluppo Musicale del Mezzogiorno), occupandomi di musica, cinema, teatro, audiovisivi, formazione ed editoria. Per gli stessi enti ho organizzato anche rassegne, convegni e mostre, elaborato numerosi progetti di carattere didattico-formativo e scritto articoli per parecchi periodici. Per alcuni anni sono stato membro del board del Europe Jazz Network e consulente del Balkan Jazz Showcase di Tirana, in Albania. Nel corso di 43 anni ho ricoperto vari ruoli all’interno di Rumori Mediterranei, tra i quali quello di responsabile delle relazioni esterne, membro del comitato artistico e coordinatore generale dell’evento prima di ricevere l’incarico definitivo di direttore artistico nel 2013. E’ il ruolo che ricopro tuttora.

Qualche anno fa è cominciata la mia attività di autore con la pubblicazione dei miei libri “Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro”, Arcana edizioni, Roma, 2021 e “Solid. Life and death of a jazz genius”, Lulu Press, New York, 2022, che non è una mera traduzione del primo.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di jazz?

La passione per il genere.

E in particolare come ti definiresti o collocheresti nel jazz?

Come organizzatore di concerti ed eventi culturali e autore di pubblicazioni. Collaboro con il Festival del Jazz Rumori Mediterranei, con ruoli di primissimo piano, sin dalla sua nascita.

Ma cos’è per te il jazz?

Un genere musicale con pochi schemi e due tratti fondamentali che lo distinguono da altri tipi di musica: l’improvvisazione e una grande libertà espressiva.

Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ a una musica come il jazz?

Il jazz è un genere che si è evoluto parecchio, a partire dai primi del novecento, quando è nato, e la sua storia è caratterizzata da continui cambiamenti di stile, pertanto è difficile associare questo genera di musica a un’idea o a un concetto preciso. Il Dixieland, lo Swing delle Big Band, il Bebop, il Mainstream, l’Hard Bop, il Third Stream, il Cool, il Free, e il Post Bop possono essere associati a idee e sentimenti diversi.

E cosa significa improvvisare?

Mettere in atto un misterioso processo performativo formato da un insieme di suoni e gestualità prodotti senza un preciso schema preordinato ma all’interno di una struttura che possa essere coerente con le aspettative e le competenze di un ascoltatore.

Quanto conta l’improvvisazione nel fare jazz?

E’ l’elemento chiave che contraddistingue questa musica, rispetto ad altri generi che risultano spesso noiosi e ripetitivi: “no improvisation, no fun”, direbbe un americano!

Tra i dischi che hai ascoltato ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato? E quali dischi (2-3) porteresti sull’isola deserta?

“Escalator over the hill” di Carla Bley. E’un doppio album che mi ha affascinato molto perché ingloba la totalità dei generi musicali (non le varie correnti storiche e stilistiche del jazz). Sotto la doccia, però, canticchio spesso il brano “Lonely woman” di Ornette Coleman. Scegliendo tra quelli che ho a casa mia (e non in assoluto), sull’isola deserta mi porterei “A love supreme” di John Coltrane, “Kind of blue”, “Tutu”, “Bitches brew” e “In a silent way” di Miles Davis. Sono scelte un po’ datate, perché ormai ascolto poco i grandi del jazz. Impiego il mio tempo libero (si fa per dire) per sentire il materiale che mi viene inviato da tanti musicisti sparsi per il mondo che vogliono suonare al Festival. Mi arrivano in media sei/sette proposte al giorno.

Quali sono stati i tuoi maestri (o riferimenti) nella musica, nella cultura, nella vita?

La grande passione per la musica l’ho sviluppata da bambino grazie a mio padre. A casa mia, in tempi difficili, avevamo una radio e un giradischi con i quali ascoltavamo un po’ di tutto, ma in prevalenza musica lirica perché a mio padre piaceva molto. Maestri non ne ho avuti, riferimenti socio-culturali sì: l’Inghilterra. Per me è stata una scuola di civiltà, un grande esempio di società democratica, un modello culturale e un immenso laboratorio creativo che ha prodotto il meglio della musica popolare e progressiva degli ultimi sessant’anni. Londra, con il suo complesso tessuto sociale multietnico, è la grande fucina della nuova musica euro-africana. In effetti è’ difficile categorizzarla, perché ingloba molti generi e stili importati in Inghilterra dagli immigrati provenienti dai paesi del Commonwealth e dalle vecchie colonie, ma è la più interessante. Un’istituzione chiave nella mia storia personale, invece, è stata l’Associazione Culturale Jonica. E’ nata alla fine degli anni Settanta e si occupava di musica, cinema, teatro, arte visiva, didattica, formazione ed editoria. E’ stata fondata da Sisinio Zito, più volte senatore della repubblica e più volte sottosegretario di stato. E’ scomparso nel 2016. Grazie ad essa, che divenne la più potente organizzazione del Mezzogiorno (quattro sedi in Calabria e una a Roma), potei entrare in un mondo meraviglioso. Poi, dallo stesso Zito, fu fondata l’Associazione per la Fondazione Rumori Mediterranei e io fui nominato vice presidente. L’appartenenza a queste due organizzazioni fu una grande fortuna per me perché mi ha dato la possibilità di svolgere una doppia professione e di frequentare con continuità grandi personaggi del mondo del jazz e gente di cinema e di teatro (tra gli altri, splendide figure scomparse come Franco Fayenz, Vittorio Franchini, Roberto Masotti, Fernaldo Di Giammatteo). Non si contano, poi, i grandi musicisti con i quali sono entrato in contatto grazie a Rumori Mediterranei e alle Stagioni di Musica Classica e Contemporanea che organizzavamo in tre città della Calabria.

Parliamo ora di Rumori Mediterranei, la tua creatura, altrimenti nota come Roccella Jazz Festival Internazionale.

Il Festival Internazionale del Jazz Rumori Mediterraneo di Roccella Jonica è nato nel 1981 grazie all’Associazione Culturale Jonica. All’epoca della nascita del Festival in Calabria le attività jazzistiche erano quasi inesistenti. Il jazz trovava qualche spazio solo in due grandi città grazie allo sforzo di alcuni operatori privati. A soffrirne di più erano i giovani, spesso costretti a spostarsi per seguire dal vivo i concerti di un certo interesse. L’idea di creare un festival del jazz è venuta ad alcuni soci dell’Associazione Culturale Jonica proprio per colmare questa grande lacuna. Il Festival già dalla prima edizione si è imposto all’attenzione del pubblico, dei critici e dei media grazie al programma stilato dal celebre giornalista e critico Adriano Mazzoletti. Il primo musicista a salire sul palcoscenico del Festival è stato il pianista Randy Weston, una stella di prima grandezza del jazz mondiale, a cui hanno fatto seguito alcuni tra i maggiori performer di quel periodo, sia a livello nazionale che internazionale. Dopo Mazzoletti è arrivato Paolo Damiani e nelle successive edizioni è stata adottata la denominazione Rumori Mediterranei per associare il Festival al tema delle culture mediterranee che dominava tutte le attività dell’Associazione Culturale Jonica e in omaggio a John Cage, il grande compositore e musicologo statunitense. Già nei primi anni il Festival si è guadagnato una certa notorietà nel panorama jazzistico nazionale e internazionale grazie alle produzioni originali, alla commissione di musiche nuove, alle attività convegnistiche, editoriali e didattico-formative. Di grande pregio anche attività collaterali come le jazz sessions e i concerti sparsi sul territorio. Da parecchio, ogni anno il Festival viene inserito nella prestigiosa guida mondiale dei festival pubblicata da Down Beat. L’Associazione Culturale Jonica ha gestito Rumori Mediterranei per circa 36 anni. Nel 2016, dopo la scomparsa di Sisinio Zito, è stata sciolta e da allora il Festival viene organizzato e gestito dal Comune di Roccella Jonica.

Aneddoti o esclusive sulla storia di questo festival?

Di aneddoti ce ne sono tanti, ne riporto quello più singolare che riguarda la mancata performance di un celebre pianista africano verso la prima metà degli anni ottanta. Era atteso a Roccella circondato da grande fama e molta reverenza da parte nostra. All’epoca per seguire i suoi concerti a New York, all’esterno dei club nei quali suonava si formavano code di centinaia di metri. Era un musicista molto esigente, ma le sue pur legittime pretese cozzavano con la limitata disponibilità di servizi di un paesino di settemila abitanti. Per contratto avremmo dovuto procurargli una Cadillac per i trasporti interni, un autista in livrea a disposizione 24/24, albergo a 5 stelle, cucina musulmana e albergo diverso da quello degli altri musicisti del suo gruppo (razzismo alla rovescia?). Per Stefania, la responsabile della logistica, fu una specie di incubo organizzativo. Tre giorni d’ansia e ricerche affannose. Dove trovare una Cadillac in Calabria? Il problema alla fine fu risolto optando per un’ammiraglia dell’Alfa Romeo che ci fu fornita gratuitamente da un concessionario nostro amico. Il primo coup de théâtre si registrò il giorno del suo arrivo. L’autista in livrea, imbottito di istruzioni, che lo attendeva all’aeroporto di Lamezia chiamò in sede (eravamo tutti attaccati alla cornetta!) per dire che il volo era atterrato ma lui non c’era. Momenti di panico, con Stefania sull’orlo di una crisi di nervi. Per fortuna all’aeroporto di Reggio c’era Patrizio, all’epoca responsabile dei trasporti, che doveva occuparsi del transfer degli altri musicisti del gruppo della star. Vide scendere il pianista dall’aereo, insieme a loro, e che fece? Si mise a correre verso il piazzale dell’aeroporto dove erano parcheggiati i taxi, ne scelse il più vistoso e voluminoso, tolse la scritta taxi e dette all’autista le istruzioni necessarie per trasportare quel passeggero speciale a Roccella.

Tutto qui?

Magari! Il giorno del concerto la star non si presentò al sound check previsto per il pomeriggio. Mandò solo la sua band. A check finito sembrava tutto a posto, anche se il giorno prima aveva piovuto. Non essendoci alcun apparente bisogno di controlli, non fu fatta l’accordatura del pianoforte. La sera prima lo aveva usato il mitico Don Cherry (lo aveva preferito alla cornetta pachistana) e non si era lamentato in alcun modo. Quando arrivò il momento fatidico dell’esibizione tutto sembrava sotto controllo. Alle 21.00 cominciò il concerto. Ingresso della band che attaccò con le prime note mentre l’attesa star si sistemava al pianoforte. Solo il tocco di un paio di tasti e arrivò il suo messaggio perentorio: “I will not play. This piano is a shit! It is the organization’s fault”. Si fermò a braccia conserte per tutta la durata del concerto mentre il suo gruppo continuava a macinare jazz di qualità. Alla fine del set il pianista scese dal palcoscenico e, stranamente, si diresse verso di me (ignorando il direttore di palco) e cominciò a urlare: “perché avete speso tanti soldi per farmi venire qui? Pensavate che avrei accettato di suonare su un pianoforte di merda?… Perché?”. La mia risposta fu pacata e decisa: “E tu perché non sei venuto a fare il sound check, così avremmo avuto il tempo di sistemare o sostituire il pianoforte?”. La cosa, per fortuna, finì senza alcuno strascico. Stranamente, però, nessuno si accorse dell’incidente. Qualche critico (suo amico), addirittura, a distanza di tempo, descrisse la sua “performance” (sic!) con termini entusiastici. Solo allora capii il concetto di musica muta (sic!).

E quali i jazzisti che ti hanno lasciato qualcosa dopo averli incontrati? E di conseguenza quelli con cui ami collaborare?

Nel mio lungo impegno organizzativo ho incontrato migliaia di musicisti provenienti da ogni parte del pianeta e con molti di loro ho stabilito un rapporto di amicizia, ma la collaborazione non è facile perché da noi, a livello di programmazione, domina il criterio del continuo turn over dei musicisti. Forse è sbagliato, ma funziona così.

Qual è per te il momento più bello nella storia di Rumori Mediterranei?

Quello dell’esecuzione di “The Folia. The Roccella variations” di George Russell, una produzione originale basata su una danza popolare portoghese del XVI secolo, poi ripresa in altri paesi europei dalla musica colta. È stata commissionata dalla direzione artistica del Festival al grande compositore e direttore d’orchestra statunitense che ha utilizzato il saggio di uno studioso greco (da me tradotto dall’italiano in lingua inglese). La prima esecuzione del brano avvenne al Ronnie Scott’s di Londra nell’ambito del concerto della Living Time Orchestra di Russell. In quell’occasione l’etichetta francese Label Bleu registrò tutti i brani e poi li riversò su Cd con il titolo «Living Time Orchestra – The London concert ». Ritengo opportuno precisare che a livello produttivo è stato primario il ruolo del compianto John Cumming (direttore del Festival del Jazz di Londra e fondatore di Associate Producer Serious) che all’epoca era membro del board del Europe Jazz Network. Ciò spiega anche la presenza di alcuni musicisti britannici come Ian Carr e Andy Shepard nella formazione di Russell. Qualche giorno dopo il concerto al Ronnie Scott’s (il 2 settembre 1989) l’orchestra di Russell si trasferì a Roccella per una strepitosa performance che è ancora nella memoria di molti. Londra e Roccella furono le uniche tappe del tour europeo della Living Time Orchestra.

Come vedi la situazione della musica (e del jazz in primis) in Italia?

Per la musica in generale la situazione non è certamente rassicurante e lo possiamo capire guardando la povertà testuale di molte canzoni e la misera semplicità compositiva dei brani musicali proposti da alcune star nei loro mega concerti e dalle major del mondo discografico nelle loro produzioni. E’ la stessa musica scadente che circola quotidianamente sui media e sui social. Il discorso è diverso per altri generi come la lirica, la classica e la musica contemporanea perché la loro situazione, pur essendo complessa e articolata, è positiva. Si tratta di settori che ricevono i benefici riservati alle specie protette e riescono a sopravvivere. Non è così per il jazz che negli ultimi anni ha registrato un calo sia di finanziamenti che di pubblico. Tra l’altro, gran parte delle risorse finanziarie pubbliche sono destinate a un paio di manifestazioni, mentre molti festival fanno fatica ad andare avanti. Non c’è dubbio che bisogna correggere alcune cose e rimuovere gli ostacoli che impediscono la crescita. Il nostro jazz è agli ultimi posti in Europa se paragonato a quello di paesi come la Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, la Germania e il gruppo dei paesi scandinavi.

Tu poi sostieni spesso che bisogna anche riflettere su di un fenomeno strano che molti si rifiutano di ammettere…

La scarsa attenzione e considerazione goduti dal jazz italiano all’estero. E’ vero che in Italia ci sono musicisti molto bravi che meriterebbero palcoscenici molto importanti a livello internazionale, ma non riescono a circolare nel mondo come meriterebbero. Quelli che riescono a farlo sono spesso patrocinati dagli istituti di cultura e dal Europe Jazz Network. Se poi usiamo come parametro la popolarità del nostro jazz in paesi come gli Stati Uniti, per esempio, i risultati non sono confortanti. Quanti musicisti italiani hanno suonato in festival prestigiosi come Newport, Monterey e Montreal? Statisticamente neanche uno (anche se a Montreal qualcuno ci è arrivato per vie traverse grazie alla “sponsorizzazione” di uno dei tanti istituti italiani di cultura) e non ci possiamo consolare solo con la partecipazione di Enrico Rava al monumentale””Escalator over the hill” di Carla Bley.

Altro dato importante: quanti sono stati chiamati a fare parte della all-star dell’International Jazz Day in undici anni di attività di questa prestigiosa formazione? Solo due, Antonio Farao’ e Gianluca Petrella, perché, in realtà, la terza, Roberta Gamberini, ormai vive in America. Qualcuno potrebbe obiettare: come la mettiamo con quello che “tutto il mondo c’invidia”? Tutte balle raccontate da un gruppo di “cantori” appartenenti alla variegata lobby che ha dominato il mondo del jazz in Italia negli ultimi anni. In ultima analisi, se vale il detto “dimmi dove vai a suonare e ti dirò chi sei” possiamo affermare che il jazz italiano, a parte che in Francia, non è riuscito ad andare molto lontano. Di chi è la colpa? Di chi soffoca i più bravi e promuove solo i propri affiliati ed è stato per lungo tempo patrocinato da un ex ministro che ha distribuito in modo disastroso le poche risorse finanziarie messe a disposizione dagli ultimi governi del nostro paese.

E più in generale che dici della cultura in Italia?

La situazione attuale della cultura in Italia è lo specchio perfetto dei processi di impoverimento generale in atto nel nostro paese, che sono caratterizzati dalla decadenza della scuola in generale, dallo squallore dei programmi televisivi trasmessi dalle reti pubbliche e private e dall’inadeguatezza del sistema dell’informazione che è nelle mani di pochi gruppi editoriali legati agli apparati dei partiti politici. L’Italia è un paese dove si legge poco e si ascolta musica scadente. Una grande colpa ce l’hanno anche i media e, soprattutto, i social media. Sono dominati dalla democrazia dei ‘like’, un fenomeno di omologazione che spinge molti individui a sostenere cause sbagliate e a scegliere prodotti di scarsa qualità culturale.

Tu hai scritto anche un libro fondamentale su Scott LaFaro. Intendi proseguire nella ‘carriera’ di autore? Se sì, con cosa?

Sì, perché grazie al discreto successo riscosso dal mio saggio “Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro”, di recente ho ricevuto delle offerte da alcune case editrici e intendo proseguire. Al momento sto lavorando su alcuni nuovi progetti e completando altri sui quali lavoravo già da tempo. La mia prossima pubblicazione, comunque, sarà un saggio imperniato su aspetti del jazz mai trattati in Italia, finora.

Cosa stai progettando per l’immediato futuro?

La mini rassegna Jazzy Christmas che si dovrebbe tenere alla fine di dicembre.

Com’è andato quest’anno il festival, ovvero l’edizione 2023?

Bene, a detta di molti che l’hanno seguito. Il programma era molto ricco: 18 concerti, un centinaio di musicisti presenti (molti i giovani), 8 master class di altissimo livello, una decina tra libri, album e documentari presentati, incontri con artisti, critici e giornalisti e una parte godereccia con al centro alcuni prodotti dell’enogastronomia locale. Non una semplice rassegna di concerti ma un format molto ben articolato, in altre parole. Sul piano musicale i risultati sono stati molto buoni. Sono molto soddisfatto delle produzioni originali presentate dai quattro gruppi di giovani della sezione “Next generation jazz” guidati rispettivamente da Domenico Rizzuto, Andrea Glockner, Andrea Brisso e Mirko Onofrio. Quest’ultimo si è cimentato in un progetto di “Third stream” imperniato sul celebre compositore napoletano Ruggero Leoncavallo, mentre gli altri hanno omaggiato alcuni italo-americani che hanno fatto la storia della musica afro-americana. Ha riscosso un grande successo anche la banda berlinese Footprint Project che ha chiuso il festival. Tutti giovani per la prima volta in Italia.

Ed è anche sstata ben accolta anche la sezione dedicata alla Turchia?

Certp, avevo due proposte nuove per l’Italia, Ypek Yolu e Cansu Tanrinkulu Quartet, e il giovanissimo pianista Hakan Basar, ormai noto nel nostro paese. Calorosa l’accoglienza al concerto del quartetto inedito della cantante persiana Farzaneh Joorabchi messo su in mezza giornata per sostituire la formazione di una cantante turca alla quale è stato cancellato il volo da Londra all’ultimo minuto.

Bene tutti gli altri. Hanno soddisfatto le aspettative del pubblico alcuni gruppi ormai consolidati come “Jazz back to grammo”, la Banda Ikona con ospite Gabriele Coen, il Lino Patruno Jazz Show, il sestetto di Riccardi Fassi con ospite il trombonista Luis Bonilla in grandissima forma e il quartetto storico di Sergio Cammeriere che ha fatto il pieno di spettatori. Anche le prime di alcuni gruppi che hanno presentato delle proposte commissionate dal Festival hanno funzionato come ci si aspettava. Confermato il carisma di Rachel Gould nel ricordo di Sal Nistico, con un Pietro Tonolo in grande spolvero, mentre il quartetto inedito Jessica Pavone, Mary Halvorson, Nick Dunston e Thomas Fujiwara, promosso dal festival, ha fatto capire in che direzione andrà la musica nel prossimo futuro (molto limitativo definirla jazz, è qualcos’altro). Apprezzati da tutti il quintetto di Daniele Gorgone con Jim Rotondi e Michael Rosen e il bel progetto di Luca Cerchiari su Frank Sinatra portato in scena con la splendida voce e la superba presenza di Greta Panettieri che era accompagnata dal suo trio. Molte seguite, infine, le master class di Rachel Gould e Greta Panettieri e buona partecipazione alla presentazione dei libri di Mirko Onofrio, Carlo Cimino, Guido Michelone, Salvatore Audino-Giorgio Nurisso, Francesco Cataldo Verrina e del documentario “Frank Sinatra e l’Italia” ideato da Luca Cerchiari. Le registrazioni dal vivo di molti concerti e di alcune presentazioni dei libri sono reperibili sul sito di Radioroccella.

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