//di Guido Michelone//

Roberto Polillo non ha bisogno do presentazioni e se proprio si vuole saperne di più, oltre quest’intervista appositamente realizzata per “Doppio Jazz”, c’è il recente volume Jazz dietro le quinte. Fotografie, ricordi e riscoperte (Mousse Publishing 2022) dove l’autore commenta le proprie immagini scattate dal 1962 al 1977, periodo in cui il jazz in Italia transita da fenomeno d’élite a movimento di massa, grazie al sempre maggior interesse dei giovani di allora, coadiuvati indirettamente dal padre Arrigo Polillo che sul mensile “Musica Jazz” offre indicazioni ben precise di ciò che all’epoca è il jazz del passato, del presente e del futuro. E Roberto Polillo diventa per antonomasia il fotografo del jazz anni Sessanta e Settanta.

D. Così, a bruciapelo chi è Roberto Polillo?

R. Bella domanda, sto ancora cercando di comprenderlo meglio io stesso. Perché nella mia vita ho fatto molte cose diverse. Mentre studiavo, al liceo e all’università (sono laureato in Fisica), facevo fotografie di jazz per la rivista di mio padre, Musica Jazz. Poi, per trent’anni, mi sono occupato di informatica, come imprenditore e docente universitario. Poi, dopo aver venduto l’azienda che avevo fondato con alcuni amici, da una diecina d’anni mi sono dedicato a tempo pieno alla fotografia. Non più di jazz, ma di viaggio, esplorando un linguaggio artistico molto particolare: il mosso fotografico. Ora sto iniziando un’altra avventura, di cui le dirò poi. Le basta come risposta?

D. Mi basta, ma ora mi racconta il primo ricordo che ha della musica? E del jazz in particolare?

R. Io sono nato in mezzo al jazz, ed è questa l’unica musica dei miei primi ricordi. Infatti mio padre, Arrigo Polillo, è stato un importante critico e promotore del jazz in Italia, a partire dal primo dopoguerra, quando sono nato io. Per vivere faceva tutt’altro (era dirigente alla Mondadori) ma, tornato a casa dall’ufficio, si occupava di jazz: scriveva articoli e libri, organizzava concerti, recensiva i dischi appena usciti. In pratica, a casa il giradischi era perennemente in funzione, e casa mia era sempre piena di jazz ad altissimo volume. Di tutto, da Louis Armstrong ai dischi di free più spinto.

D. Quali sono i motivi che l’hanno spinta a fotografare il jazz?

R. È molto semplice: fin da molto piccolo avevo già manifestato un grande interesse per la fotografia, e mio padre aveva bisogno di foto per Musica Jazz, la rivista che aveva fondato con Giancarlo Testoni e di cui si occupò per 39 anni, fino alla sua morte nel 1984. Quindi, quando avevo 15 anni (era il 1962), mi regalò una macchina fotografica semi-professionale e mi chiese di accompagnarlo nei concerti. Cosa che feci con grande passione per una dozzina d’anni, fotografando più di 100 concerti, in Italia, in Svizzera e in Francia. Poi, dopo la laurea e dopo aver conosciuto Patricia, che sarebbe diventata mia moglie, mi dedicai all’informatica, e il jazz fu un ricordo del passato.

Duke Ellington, Milano 1966
Louis Armstrong, Juan-les-Pins (France) 1967

D. In particolare che ruolo ha avuto suo padre Arrigo nel comunicarle il jazz?

R. Per me è stata una grande guida, sia per quanto riguarda la musica sia per quando riguarda la fotografia. Mio padre era un una persona estroversa, e sapeva comunicare l’entusiasmo delle cose che apprezzava. Non solo la musica, ma l’arte in generale: la pittura, l’architettura romanica e la scultura. Era anche un bravo scultore, un hobby che però abbandonò ben presto per mancanza di tempo.

D. Ma cos’è per lei il jazz?

R. Una parte molto importante della mia vita, che fino a una ventina di anni fa avevo sottovalutato. Lo consideravo un episodio della mia giovinezza, che avevo archiviato nella mia memoria, per occuparmi d’informatica e poi di internet, una vicenda trentennale molto impegnativa. Quando mio padre morì, avevo regalato tutte le stampe delle mie fotografie a Musica Jazz, e avevo raccolto i negativi in un cassetto. Mi “risvegliai” nel 2002, quando Pino Ninfa, un importante fotografo di jazz che allora non conoscevo, mi propose di organizzare una mostra assieme a Riccardo Schwamenthal, un bravo fotografo jazz di quei tempi, un amico ormai scomparso. Da allora il mio archivio è rinato: nei vent’anni seguenti ho pubblicato diversi libri di mie fotografie, ho realizzato una collezione fine-art in digitale, ho fatto quasi una trentina di mostre personali. All’Accademia del Jazz di Siena c’è da molto tempo una mia mostra permanente di più di 60 immagini. Durante la pandemia, infine, ho approfittato del lockdown per riorganizzare e catalogare tutto il mio archivio. E ci sto ancora lavorando.

D. Quali sono i pensieri che associa alla fotografia quando riprende un jazzista?

R. Alcuni ritengono che un fotografo, mentre scatta, dovrebbe mantenersi emotivamente distaccato dal suo soggetto, per guidare razionalmente il suo lavoro. Io non sono assolutamente d’accordo. Per rappresentare la musica (e non solo chi la suona) il fotografo deve “immergersi” in essa, anche emotivamente. Le migliori fotografie si fanno con il cuore, e non con la mente. Sono considerazioni che ho cercato di raccogliere in un piccolo libro che sta per uscire, “Fotografare il jazz”.

D. Tra i musicisti che ha incontrato ce ne sono alcuni a cui è particolarmente affezionato. Qualche aneddoto al proposito?

R. Il mio “imprinting” è stato ricevuto dal primo concerto italiano del mitico quartetto di John Coltrane, nel dicembre 1962. Una emozione fortissima, una musica travolgente che stava scardinando tutte le convenzioni del jazz. Coltrane suonava in smoking, con assoli lunghissimi da cui sembrava non potersi mai staccare, sudando copiosamente, una sorta di rito pagano che non aveva uguali. Da allora, per me, “jazz” significa, soprattutto, Coltrane.

John Coltrane Quartet / Milano 1962

D. E tra le fotografie che ha scattato quale ad esempio vorrebbe vedere esposte in un grande museo per sempre?

Ce ne sono diverse che sono ormai state pubblicate numerosissime volte. Un ritratto di John Coltrane meditativo con il sigaro in bocca, che è stato usato da Norman Granz per l’LP sul primo tour europeo del quartetto, nel 1962. Poi una doppia esposizione, ancora del quartetto di Coltrane, nello stesso concerto al Teatro Lirico di Milano, e molte altre. Ho raccolto un centinaio delle immagini che ritengo più importanti in una collezione digitale, dal titolo Jazz Icons – 60 jazz masters of the Sixties. Stampe fine-art molto accurate, in edizione limitata, che ho presentato in diverse mostre, in Italia e negli Stati Uniti.

D. Quali sono stati i suoi maestri nella fotografia?

R, Ai tempi guardavo soprattutto le cover degli LP, che spesso utilizzavano immagini di fotografi . importanti. E poi, fuori dal jazz, mi aveva molto impressionato il libro di William Klein su New York, che per i tempi era molto innovativo. Ma chi mi ha influenzato è stato soprattutto Giuseppe Pino, allora un grande amico e un grande fotografo, assieme al quale ho fotografato decine di concerti. Giuseppe allora era il fotografo ufficiale di Panorama, e un grande appassionato di jazz. Dopo ogni concerto ci incontravamo per mostrarci i risultati del nostro lavoro, ed era sempre una grande emozione.

D. E i jazzisti che l’hanno maggiormente influenzata?

R. Quelli che negli anni sessanta stavano innovando il jazz, a partire da John Coltrane, e poi, naturalmente, Miles Davis. Mi sono invece perso la generazione che sviluppò il jazz soprattutto a partire dagli anni Settanta. Dopo la laurea, dal 1972 frequentavo i concerti in modo molto più sporadico. Dal 1975, poi, me li persi praticamente tutti.

D. Qual è stato per lei il momento più bello della sua carriera di fotografo?

R. Io sono stato un fotografo autodidatta, e lo si vede nelle mie fotografie. Infatti sono maturato negli anni, i miei scatti più sicuri sono quelli alla fine degli anni Sessanta, nei grandi festival in Italia, a Montreux e a Juan-les-Pins. Ma i momenti più belli sono stati in anni più recenti, quando ho ripreso in mano il mio archivio per realizzare delle mostre. In particolare, ricordo con grande piacere una mostra importante, anche se molto breve, che ho fatto al BASE di Milano nel 2016, durante il festival JazzMI, più di 100 stampe analogiche. Poi una partecipazione importante alla fiera d’arte Context New York, nel 2018, dove ho realizzato una installazione dal titolo: Jazz, A Love Supreme con l’artista Leonor Anthony, con la quale ho poi realizzato un libro d’arte dal titolo Sounds of Freedom, che ha avuto un notevole successo alla Art Basel Week del 2019 a Miami. Nel 2019 poi ho organizzato a Milano un evento per il centenario della nascita di mio padre. Con fotografie, musica, e tanti amici.

D. Come vede la situazione della foto-jazz in Italia?

R. Da noi ci sono stati moltissimi fotografi che si sono occupati di jazz, dagli anni Cinquanta fino ad oggi, fra cui alcuni nomi molto importanti. Basti ricordare, fra i tanti, Ugo Mulas, Giuseppe Pino, e Roberto Masotti, tutti ormai scomparsi. È un grande peccato che non sia mai stata scritta una storia della fotografia jazz italiana, né organizzata una mostra antologica su questo soggetto. Vedremmo una galleria di immagini di epoche e di stili diversi, che affiancano la storia della musica jazz negli ultimi 70 anni. Una testimonianza importante che occorrerebbe raccogliere e organizzare.

D. E più in generale cosa pensa della cultura in Italia?

R. Beh, l’Italia è il Paese dei “beni culturali”, le iniziative sono moltissime, soprattutto a livello locale. Ma ci sarebbe molto da dire su come migliorare la situazione, però io non ho alcun titolo per farlo. Per quanto mi riguarda, da un paio d’anni ho avviato un progetto di ristrutturazione di una vecchia fabbrica milanese abbandonata, vicino al Naviglio Grande, per farne un centro culturale orientato ai giovani. Inizierà a ospitare degli eventi culturali a inizio 2024, con il nome di P.AR.CO. (acronimo di Polillo Art Container). Una iniziativa non orientata alle culture del passato, ma a quelle del futuro. Uso il plurale perché sarà focalizzato sul tema della diversità delle culture. Infatti penso che non stiamo facendo ciò che sarebbe necessario per conoscere e valorizzare le culture diverse dalla nostra. La diversità è un grande valore, dobbiamo imparare a conoscerla e ad apprezzarla, mentre spesso ne abbiamo paura. Ma diversità è ricchezza, e dobbiamo valorizzarla. È ciò che mi propongo di contribuire a fare.

D. Cosa sta progettando per l’immediato futuro?

R. A parte il P.AR.CO., che è al momento il mio progetto di gran lunga più impegnativo, per quanto riguarda la fotografia jazz subito dopo l’estate usciranno due miei nuovi libri. Il primo, Fotografare il jazz, – Il volto, la musica, l’improvvisazione (Edizioni Mimesis) contiene alcune riflessioni su come rappresentare al meglio, in fotografia, i musicisti di jazz mentre improvvisano. Perché ritengo, come anche altri autori hanno osservato, che il jazz è musica “da vedere”, e non soltanto da ascoltare, perché vedere ciò che avviene durante la performance sul palcoscenico permette di comprenderne al meglio gli aspetti strutturali ed emotivi. In questo libro analizzo numerosi esempi di mie foto di grandi nomi del jazz, come Coltrane, Armstrong, Davis, Mingus, Monk, Roach, Blakey, eccetera.

D. E il secondo?

R. Il secondo è un fascicolo di immagini in grande formato di 28 grandi jazzisti, dal titolo Sounding Pictures. Una serie sui fotografi italiani del jazz curata da Marco Pennisi con la sua Red Records, in edizione limitata, che ha già pubblicato i lavori di Mirko Boscolo e di Elena Carminati.

John Coltrane, Milano 1962
Miles Davis, Bologna 1973

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