// di Francesco Cataldo Verrina //

In fase di premessa, mi piacerebbe stabilire – e credo che siamo tutti d’accodo – che Mika con il jazz non centri proprio nulla, non esiste relazione di parentela neppure alla lontana. Certo, i soliti bontemponi o i giannizzeri del sistema cercheranno di spiegarci che personaggi come Mika servono o siano serviti (anche nel passato recente) a Umbria Jazz per far cassa, cosa che abbiamo detto e ripetuto anche noi fino alla nausea. La domanda è: Umbria Jazz è un forma subliminale di promozione turistica della regione o una manifestazione culturale? L’una e l’altra ti risponderanno gli operatori coinvolti nell’indotto, ma soprattutto quelli dell’area del centro storico, appena fuori dalle mura, perché quelli dei quartieri e della periferia, dicono sempre che a loro non gliene viene niente. In fondo, della cultura poco importa, siamo diventati tutti così prosaici, il berlusconismo ha stillato nella mente di molti l’idea che con la cultura non si mangia. Non intendo spostare il discorso sul piano politico, anche perché tra destra e sinistra in Italia c’è la stessa differenza che passa la neve naturale e quella artificiale: è solo una questione di viscidità.

Mika è una macchina da guerra per uno spettacolo caricato a pallettoni, un’esplosione di lustrini, di colori pastello che contrasta con l’understatement misurato e sobrio dei jazzisti. Personalmente dopo la terza canzone ho sentito l’esigenza di andare via (anche se non l’ho fatto): in tre giorni siamo passati dalla stitica austerity dylaniana alla festa del touch screen, dalla penombra alle luci della ribalta. Così mentre a Perugia gli organizzatori banchettano (come abbiamo visto in alcuni servizi televisivi) e si gongolano parlando di successo e di sold-out, il mondo del jazz sui vari social media s’interroga e discute sulle anomalie di una manifestazione che continua ad usate nel brand il termine jazz, ma che mette sempre più in cartellone personaggi distanti anni luce dalla cultura e dalla musica improvvisata africano-americana. E non basta salvarsi la faccia con Herbie Hancock. É vero che oggi, martedì 11 luglio, all’Arena Santa Giuliana si esibiranno il Brad Mehldau Trio ed il Branford Marsalis Quartet, ma non è sufficiente, anche perché si ha come l’impressione che tali eventi siano tenuti quasi nell’ombra e che gli organi d’informazione compiacenti, spesso poiché crudi di cultura jazzistica, mettano in evidenza Bob Dylan, Mika ed altri personaggi borderline o fuori luogo come Paolo Conte e Ben Harper.

Mika, all’anagrafe Michael Holbrook Penniman Jr, è un quarantenne libanese naturalizzato britannico, dotato di un’intelligenza, di un fiuto per gli affari, la moda e lo spettacolo non comune, caratteristica che, nell’arco di una quindicina d’anni, l’ha reso una delle pop-star più ricche e pagate del mondo. La prima domanda sorge spontanea: quanto è costato il cantante inglese a Umbria Jazz? Auspichiamo che, per solita operazione trasparenza, ne venga comunicato il cachet. Proviamo a partire da alcune considerazioni: stando a quanto riportato dal portale Donna Pop, tra aprile del 2021 e aprile del 2022, Mika avrebbe guadagnano ben 75 milioni di dollari, cifra che lo renderebbe il più pagato (o tra i più pagati) della sua categoria; solo per lo spettacolo su Rai 2 Stasera Casa Mika, avrebbe guadagnato circa di 3,6 milioni di euro per quattro puntate. Se tanto mi da tanto, riteniamo che i cantante nato nella terra dei cedri non sia venuto ad Umbria Jazz soltanto per una doppia porzione di torta al testo con erba e salsiccia (tipica specialità perugina, dove l’erba non è la marijuana ma la bietola), ma per un compenso da pop-star del suo rango. Mika ha risucchiato il pubblico in un scenario cartoonesco fatto di suoni, colori sgargianti, luci e sorrisi, quasi due ore intense di live-act, strutturato e studiato in maniera mercuriale, in cui la pop-star dimostra che, al netto della musica, deve passare l’idea che il suo sia uno spettacolo a metà strada tra Las Vegas e Bollywood. Sono sei gli appuntamenti live, destinati da Mika all’estate italiana e, in ogni singola tappa, è prevista una scaletta appositamente pianificata, ma le hit che girano, come abbiamo sentito, sono sempre le stesse. Il pubblico resta affascinato da una collezione di fiori di enormi dimensioni, un pianoforte dalle zampe leonine e da ben sessanta abiti disegnati dallo stesso Mika che rendono lo show simile ad una sfilata di moda.

Ora se facessimo mente locale a come Umbria Jazz si sia sviluppata, spinta dalla cultura alternativa ed antagonista, se non fossimo consapevoli di essere nell’era del web 4.0 e del nulla mischiato al niente, si potrebbe provare un certo ribrezzo per tanta esteriorità ostentata, ma con contenuti sonori assai ripetitivi, eccezion fatta per qualche tormentone come «Grace Kelly», «Boum Boum Boum» e «Underwater». L’unico vantaggio di Mika sull’uditorio nasce dal fatto che egli parli perfettamente l’italiano ma con un accento che risulta sempre un po’ buffo rendendolo simpatico come Stanlio ed Onlio. Ricordo il mio primo impatto con questa manifestazione, era il 1976, avevo sedici anni e non sapevo neppure cosa stesse realmente accadendo. Ad Umbria Jazz una marea umana itinerante si spostava da una location all’altra, contestando perfino certi jazzisti (specie se bianchi) poiché ritenuti più vicini all’establishment. In quella situazione un Mika di turno sarebbe stato messo alla berlina ed esposto al pubblico ludibrio in Piazza IV Novembre, mentre oggi diventa la nuova chiave di lettura del festival perugino che soccombe ai lustrini e alle paillettes, immemore della sua storia. Dal canto suo il cantante libanese sa come sciorinare una carrellata di successi a presa rapida e sedurre la sua gente, circa 4.500 persone convenute al Santa Giuliana, che (absit inuria verbis) non è proprio quella del jazz, tra casalinghe di Voghera, parrucchiere di Gallipoli, tersicoree di Foligno, ragazzini con i brufoli, mamme in estasi e sfitinzie che non staccano mai lo sguardo dallo smartphone. Il libanese policromo tenta perfino la captatio benevolentiae con un saluto a Renzo Arbore, presidente onorario di Umbria Jazz, dicendo che se fosse stato in loco lo avrebbe invitato a suonare il clarinetto. È una messa in scena sapientemente allestita, in cui un folletto dal guardaroba sgargiante, a metà strada tra un saltimbanco e un dandy, canta senza risparmiarsi tirando fuori dal gargarozzo una voce che raggiunge vette altissime e che, anni addietro, aveva spinto un euforico critico inglese con l’otite a paragonarlo a Freddie Mercury, anche se lui ha sempre sognato di essere George Michael. Mika, che corre e salta da una parte all’altra senza un momento di respiro, è il re della scena. Quando egli si siede al pianoforte emoziona la sua utenza più attempata, per il resto è tutto un balletto da saggio scolastico, così perfino le frange più adulte dell’uditorio diventano teenager impazziti a una festa. Con tutto il rispetto per Mika, che nel suo ambito di pertinenza è un professionista di riconosciuta vaglia, per gli amanti del jazz e per quanti hanno ancora rispetto per la tradizione di Umbria Jazz è solo un movimento peristaltico ed un reflusso gastro-esofageo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *