// di Francesco Cataldo Verrina //

Le collaborazioni tra musicisti provenienti vario titolo da differenti aree geografiche del vecchio continente hanno portato negli ultimi decenni ad un innalzamento qualitativo del jazz europeo rispetto a quello americano: la confluenza di stili ed esperienze produce sempre un’evoluzione genetica della specie, soprattutto quando si agisce inter pares, senza gerarchizzazioni e sudditanze, al fine di trovare un punto nevralgico di confluenza che faccia da centro propulsore delle idee. Un caso lampante e con risultati tangibili riguarda Gregg Lamy e Flavio Boltro, due personalità diverse per imprinting ma confluenti e compensative, la cui collaborazione offre una visuale prospettica decisamente più ampia di ciò che il jazz europeo contemporaneo non solo dice di essere, o di saper fare, ma lo dimostra tangibilmente e con dati di fatto alla mano. «Letting Go» di Gregg Lamy e Flavio Boltro è un album che nasce metaforicamente da una perfetta congiunzione astrale tra due pianeti perfettamente allineati sullo stesso asse del jazz. Bastano poche misure e già a metà del primo brano si capisce che la sinergia tra i il chitarrista lussemburghese ed il trombettista italiano raggiunge livelli quasi simbiotici, attraverso un costante scambio osmotico corroborato dalla presenza di altri due sodali di rango, Gautier Laurent al basso e Jean-Marc Robin alla batteria, telepaticamente integrati e ben disposti a sostenere gli assunti basilari del progetto. Va detto subito che il sodalizio tra Lamy e Boltro nasce da lontano ed è legato a tre album precedenti: «Meeting» (2013), «Press Enter» (2017) e «Observe The Silence» (2021).

Con «Letting Go», Boltro diventa una voce attiva e fattiva nel concept del progetto e l’altra metà del cielo di Lamy, mentre il chitarrista scopre in lui un alleato sicuro, attraverso una complicità rodata durante numerosi concerti in Europa prima ancora di prendere in considerazione una registrazione. «Sapevo che avremmo legato anche in studio», ha dichiarato Boltro. E così è stato: gli automatismi si sono affinati e la coesione tra i musicisti si è rafforzata, mentre il flusso sonoro dell’album risulta giocato su una spontaneità quasi da jam session. Il materiale registrato proviene da «prese dirette»: sei composizioni sono del chitarrista lussemburghese e tre del trombettista piemontese; in più Boltro ha suggerito un classico del repertorio di Pino Daniele, «Chi Tene O’ Mare», quasi un monito legato ai disastri ambientali e alle catastrofi ecologiche della nostra epoca. «Letting Go» si sostanzia come un perfetto anello di congiunzione fra contemporaneità e tradizione sia in termini di composizione che di esecuzione, in cui risaltano la leggerezza degli arrangiamenti ed un comping calibrato e spaziato che evita qualunque eccesso di virtuosismo ridondante e fine a sé stesso. I quattro musicisti sembrano dialogare con una disinibita naturalezza e con una capacità d’ascolto quasi mercuriale: l’interplay diventa così una delle carte vincenti dell’album. Registrato presso lo Studio des Bruères, Poitiers, nel luglio del 2022, «Letting Go» diventa un termometro per misurare l’ottimo stato di salute del jazz europeo con aspirazioni internazionali.

L’album si apre con «Bridge House», un componimento dal mood cangiante e dall’atmosfera introspettiva, dove gli spazi assumono il valore del tessuto connettivo, tanto da riportare alla mente il Miles pre-elettrico e talune ambientazioni vagamente progressive a metà strada tra Pat Metheny ed i Pink Floyd. «Coccinelle» è un costrutto modale sostenuto da un impianto ritmico incalzante a cui si contrappone uno sviluppo tematico basato su una cantabilità immediata. «Alba Marina» si caratterizza come una ballata metropolitana dal sapore soulful, ma scaldata nella melodia da un soave tepore mediterraneo, sorretta dall’alternanza tra i due strumenti di prima linea e guidata dal perfetto comping proveniente dalle retrovie. «Let’s Fly» si sostanzia come un mid-range, dagli stati d’animo volubili e dai ripetuti cambi di passo, soprattutto variabilità d’umore del tema segna il passaggio da una melodia dal sapore retrò ad un gioco improvvisativo obliquo ed impervio. «My Dearest (For Camille Part II) si basa su un’architettura sonora dilatata e descrittiva, quasi cinematografica, forte di una melodia a presa rapida, in cui la chitarra di Lamy sembra il grimaldello che apre tutti gli spazi espositivi Boltro. «Onirica» possiede le fattezze di una ballata bronzea e malinconica, quasi sospesa e sognante, in cui chitarra e tromba si fanno promesse per l’eternità esternando un profondo lirismo. «Enfin» è quasi un inno, un canto libero declamato con voce sofferente dalla tromba sostenuta da un groove funkified e marciante, mentre la chitarra assume colorazioni profonde e struggenti. «Daddy & Daughter», assume i tratti somatici di una camera di sospensione, sviluppando un’atmosfera ambient dove il fuoco incrociato di tromba e chitarra producono un pathos perforante. «Ike» è una lunga progressione chitarristica, una vetrina espositiva per Lamy che libera tutti i suoi demoni creativi. In chiusura «Chi Tene O’ Mare» di Pino Daniele viene restituita al mondo degli uomini attraverso un amplesso di note che trasudano di poesia: la chitarra raggiunge profondità abissali, mentre la tromba riscopre tutto il suo corredo genetico mediterraneo. Siccome l’orecchio umano possiede delle caratteristiche di unicità come le impronte digitali, in fondo, quelle descritte, credo che siano solo suggestioni e «Letting Go»di Gregg Lamy e Flavio Boltro ne offre tante, al punto che ad ogni ascolto le dinamiche percettive sembrano mutare piacevolmente. Tutto ciò sul Pianeta Terra si chiama ancora jazz.

Flavio Boltro, Gregg Lamy, Gautier Laurent e Jean-Marc Robin

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