Eric Mingus & Sergio Sorrentino

// di Guido Michelone //

«Tutte queste canzoni sono estremamente personali per me. Sono fette astratte di realtà e fantasia. Tutto è generato da ciò che mi rende me stesso. Quando ascolto indietro, a volte emergono momenti che non avevo considerato o sento una connessione con qualcosa che non era previsto o è una storia di finzione influenzata dalla vita che ho condotto. Il significato che ho in mente è piuttosto immateriale. Una volta che pubblichi qualcosa, il significato appartiene a chi ascolta»: sono le parole rilasciate da Eric Mingus alla rivista australiana «The I -94 Bar» a proposito di quella che per il momento resta ancora l’ultimo suo album, ovvero The Devil’s Weight (2020) edito dalla Ouch! Records, che è anche un lavoro da cui trae spunto per il recente concerto tenutosi a Vercelli il 3 maggio scorso nell’ambito dell’International Jazz Day UNESCO 2024, ovvero la Giornata Mondiale del Jazz, che ogni anno si festeggia, grosso modo dal 30 aprile al 10 maggio. Si tratta, come forse si sa, voluta da Herbie Hancock, geniale pianista e fondatore dello stesso Jazz Day con le seguenti motivazioni: «Scopo di questa giornata è quello di far crescere nella comunità internazionale la consapevolezza delle qualità del jazz, come mezzo formativo, come forza di pace, di unità, di dialogo e di più stretta cooperazione fra le persone».

La scelta di Eric Mingus, fortemente voluta dalla Società del Quartetto vercellese e dal chitarrista Sergio Sorrentino in qualità di promotore e protagonista del jazz come arte e cultura, ribadisce la centralità di un più generale sound afroamericano, così come viene declinato anche nel disco a partire dalla dicotomia male/bene, inferno/paradiso nelle spiegazioni dell’autore: «La melodia The Devil’s Weight è (in parte) un cenno alla lunga relazione che il diavolo ha avuto come personaggio della musica blues. A volte penso che sia il capro espiatorio per giustificare un cattivo comportamento in cui non ha avuto alcun ruolo. Del resto, lo è anche Dio! Tutti noi abbiamo avuto una sorta di lotta riguardo a ciò in cui crediamo o non crediamo. Sto brandendo un grosso bastone contro un sacco di demoni in questo!». Mingus scrive persino alcuni appunti su altro eccellente brano del disco, The Elephant in The Room, per un regista intenzionato a girarne un vero video realizzato per questo brano): «(il pezzo) parla di strati. Strati di suono e significato. Molte cose nella vita spesso possono essere notate ma non menzionate. Danno fatto e mai riconosciuto. Può essere una dinamica familiare, una dinamica sociale. Andiamo avanti in silenzio, come se gli orrori non fossero mai accaduti. Agiamo come se tutto andasse bene, mentre questi fantasmi ci circondano e non affrontiamo ciò che tutti condividiamo per paura, vergogna e senso di colpa. Dal punto di vista del suono e della canzone, ho sperimentato con la traccia della voce solista per creare elementi aggiuntivi nella canzone. Ho instradato la voce principale in diverse strisce di canali cariche di effetti che rispondono alla linea che ho cantato in modi diversi e ho creato un coro quasi etereo».

Tutto questo vale anche per il percorso artistico compiuto da Eric: nato l’8 luglio 1964 a New York City, come si sa Eric Mingus figlio di Charles Mingus e di Judith Starkey prende il nome di battesimo da Eric Dolphy, sassofonista, amico e collaboratore del padre Charles Mingus: cresciuto nello stato di New York, da adolescente studia la poesia di Langston Hughes e di Thomas Eliot e debutta come attore in teatro, lavorando anche da pugile dilettante, allenato dal mitico con Floyd Patterson; dopo brevi studi di voce e basso al Berklee College of Music nel 1985 in tournée quale cantante con Bobby McFerrin, Carla Bley e Karen Mantler prendendo parte all’album di quest’ultima My Cat Arnold (1988). Nel 1994, su invito di Ray Davies, si trasferisce a Londra, dove forma un duo con il trombettista Jim Dvorak, con il quale firma il disco This Isn’t Sex [1999]. Vive poi a Berlino e Copenaghen, dove, oltre apparire in vari festival jazz, insegna improvvisazione vocale, prende parte al Charles Mingus Workshop presso la Community Music House di Londra. Nel corso di una carriera costante lavora, tra l’altro, con la Mingus Big Band, Elliott Sharps, Todd Rundgren, Elvis Costello, Nick Cave e Levon Helm, oltre progetti del produttore Hal Willner, come Stormy Weather (2005) album-tributo ad Harold Arlen. Nel 2000 esordisce in proprio con Um…Er…Uh, il cui titolo si riferisce ironicamente al Mingus Ah Um (1959): da qui si delinea chiaramente lo stile vocale che non abbandonerà più: un mix consapevole di black music soprattutto popolare. Segue regolarmente una decina di album interessantissimi: solo a suo nome, Too Many Bulletts… Not Enough Soul (2002), Healin’ Howl (2007), Fog of Forgiveness (2019), The Devil’s Weight (2021), Dog Water (2023). In progetti condivisi: Clockwork Mercury Catherine Sikora (2007), Electric Willie – A Tribute To Willie Dixon con Elliott Sharp, Henry Kaiser, Eric Mingus, Queen Esther, Glenn Phillips, Melvin Gibbs, Lance Carter (2010), Fourth Blood Moon con Elliott Sharp & Tectonics (2016), Langston Hughes: The Dream Keeper con David Amram (2017).

Sullo stile di Eric, cantante poliedrico e talvolta anche contrabbassista, vale ancora quanto scrive Francesco Buffoli sul sito «Storia della Musica»: «Anche Eric si è formato respirando jazz, le liturgie della chiesa afromericana, il blues. Ha studiato le complesse partiture orchestrali e i lussureggianti arrangiamenti assemblati da Charles per le sue band futuriste, ma poi è andato per la propria strada. Lo separano da Charles non solo alcuni decenni di vita, ma anche tanto funk, tanto rock e tantissimo hip hop. La cosa si sente. (…) Più che all’inarrivabile padre, Eric assomiglia a Gil-Scott Heron: il suo discorso musicale si costruisce sul blues, sulla spoken poetry. Le sue invettive hip hop blueseggianti sono immerse dentro paesaggi sonori creativi che rubano idee al jazz e al funk. Il testo diventa parte essenziale della composizione, mentre le ricche sfumature degli strumenti a fiato, la sordina wah-wah, le armonie spezzate e sventrate restano concetti piuttosto lontani».

Ad accompagnare Mingus nello show di Vercelli il chitarrista Sergio Sorrentino, vercellese d’azione, allievo di Angelo Gilardino, musicista a tutto mondo in grado di spaziare dal classico al barocco, dal moderno al contemporaneo, usando gli strumenti sia acustico sia elettrificato, tra i pochi al mondo a utilizzare la chitarra elettrica in ambito colto, entro cui tantissimi compositori odierni gli scrivono apposite partiture. Ciò non toglie che i suoi interessi, come nel caso dell’accompagnamento a Mingus si rivolgano anche al jazz, al blues, e al rock in un programma specifico e inedito in anteprima mondiale, dove Eric ha sfoderato grinta, potenza, espressività a partire dai classici folk della musica afroamericana (gospel, spiritual, work song) per approdare soprattutto al blues anche moderno, come rilevano le interpretazioni stupende di Hey Joe di Jimi Hendrix e Hoochie Coochie Man di Muddy Waters. Tutto sold out al Borgogna con la presenza, fra il pubblico, di molti illustri esponenti della scena teatrale (Roberto Sbaratto) e cantautorale (Carlot-ta), non senza musicisti ‘affini’ dal bluesman Paolo Bonfanti al sassofonista free Cecco Aroni Vigoni: assenti ‘inspiegabilmente’ i jazzisti, di rado avvistati ad iniziative precipue se non alle loro (di solito concerti).

Eric Mingus

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