di Guido Michelone

Nato a Torino nel 1959, Piercarlo Poggio ha un curriculum trasversale di tutto rispetto nel senso che è, tra i pochi, almeno in Italia a occuparsi di svariate musiche e a non fossilizzarsi o irrigidirsi esclusivamente sul jazz o sul rock o sulla classica come invece accade purtroppo a critici, studiosi, musicologi che con un’iperspecializzazione (per molti versi anche invidiabile) perdono di vista però la complessità della musica odierna, che, fra l’altro, è la creatività stessa a ricercare (molto più dei critici o dei criticoni, per non parlare di ascoltatori, collezionisti, prigionieri dei compartimenti stagni, ovvero chiusi in se stessi). Basta osservare il curriculum di Piercarlo Poggio per intuirne l’ampiezza di vedute dal lavoro per scegliere i brani per il data base dio RAI Radio3 all’attività come membro della giuria del Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana. Notevoli ed eclettici risultano anche i contributi in volumi dal collettaneo Rock e altre contaminazioni (2003) a Musica non grata. La classica contemporanea nell’era sovietica (2016) fino al recentissimo scritto con Aldo Gianolio John Coltrane. Tranesonic e il riflesso dell’universo, di cui parla volentieri in quest’intervista esclusiva per «Doppio Jazz».

D In tre parole chi è Piercarlo Poggio?

R Ancora non l’ho capito, però mi devo sbrigare, non mi resta molto tempo.

D Cosa ascoltavi da piccolo e poi da ragazzo?

R Purtroppo non avevo il pianoforte in salotto, da mio padre non ho ereditato una bella collezione di dischi e mia madre non era una cantante. Nonostante ciò la musica è sempre stata presente nella mia vita, fin da piccino, in forme popolari di cui ho avvertito l’importanza formativa soltanto vent’anni dopo. Dai miei parenti nelle campagne dell’Astigiano, quando i vicini andavano a trovarli la sera, ho ascoltato arcani canti folk di cui già all’epoca si stava perdendo la memoria. Poi c’erano i balli conditi da polke, valzer e mazurke suonati da orchestrine scalcagnate ben prima che arrivasse l’onda del ballo liscio plastificato. Nel paesino di montagna della Val di Susa in cui passavo le estati di tanto in tanto compariva il leggendario “Franco il fisarmonicista”, con la sua imperdibile versione di La Migliavacca. Nello stesso luogo avevo un amico con un mangiadischi, che riusciva a procurarsi 45 giri per me incredibili, dai Black Sabbath alla Formula 3. E poi c’era la radio, a lungo la mia unica fonte di informazione musicale, dalla Hit Parade di Lelio Luttazzi a Per Voi Giovani e alle trasmissioni di Adriano Mazzoletti.

D E come sei arrivato alla cosiddetta critica musicale?

R A scrivere di musica sono giunto tardi, a fine anni Novanta, del tutto casualmente. Prima su «Vicevers», rivista apparsa per breve tempo in terra lombarda, e poi per «Blow Up», a partire dagli inizi della sua avventura in edicola. Dal 2005 collaboro inoltre con «Audioreview». Non mi sento comunque di appartenere alla categoria dei critici, è un titolo troppo impegnativo. Mi accontento di essere un ‘passeur’ nel senso indicato da Daniel Pennac: tento di trasmettere quel che so, di raccontare al lettore perché un certo disco o artista valga la pena o meno di essere ascoltato, tutto qua.

D Perché ancora un libro su John Coltrane?

R Perché no?

D Come vi siete conosciuti con Aldo Gianolio e come nasce il vostro sodalizio per il testo su Trane?

R Lo conoscevo ovviamente di firma, poi un bel giorno del 2016 me lo sono ritrovato come “capo” del jazz ad «Audioreview». L’aveva chiamato il “capo dei capi” Federico Guglielmi e così da allora tutti i mesi ci si sente per definire quali recensioni mi spettano (in realtà è una trattativa finta, decide sempre lui). Quando a «Blow Up» è venuta fuori l’idea di un volume su Coltrane ho subito pensato che potesse essere il compagno di viaggio giusto, e così è stato.

D Come definireste la vostra ricerca condotta su Trane? Avete scoperto qualcosa di nuovo?

R È una guida discografica, come gli altri 32 volumi della serie Director’s Cut avviata da Stefano I. Bianchi, direttore di «Blow Up». Abbiamo lasciato da parte il più possibile le vicende biografiche, allo scopo pratico di indirizzare il lettore nella selva della produzione coltraniana, magari con l’ambizione di togliere la polvere a qualche opera dimenticata. In Italia (e non solo) era da almeno vent’anni che non veniva pubblicato qualcosa del genere. Diciamo che, alla luce della notevole quantità di inediti venuti alla luce negli ultimi due decenni (senza contare il profluvio di ristampe), più che andare alla ricerca di novità abbiamo tentato di fare un po’ di ordine a beneficio degli appassionati.

D Possiamo parlare di Trane come la quintessenza del jazz contemporaneo?

R Sul fatto che anche tra mille anni molti dischi di Coltrane suoneranno ‘contemporanei’ non v’è dubbio, ma a considerare la frammentazione del presente, con tutto che si mescola con tutto, temo che la sua musica venga sovente vista, in senso limitante, come uno dei tanti elementi da ibridare con altri, perdendosi la complessità di un’esperienza davvero unica.

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz per Piercarlo Poggio?

R Credo di sì, in fin dei conti non sono pochi a suonare ancora mainstream e a cercare di rinverdire la tradizione boppistica oppure a proporre un’improvvisazione astratta e rumorista che rinvia direttamente agli anni Settanta della creative music e del radicalismo europeo, solo per limitarci a due esempi. Oggi poi il jazz viene di continuo accoppiato, almeno nominalmente, con un’infinità di altri generi e stili, per cui la sopravvivenza della specie è garantita.

D Cambiando discorso, si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Anche solo restringendo il campo all’Europa, ogni scena nazionale ha qualche caratteristica precipua, e l’Italia non fa eccezione. Piuttosto oggi mi preoccupa una certa omogeneizzazione nei percorsi formativi dei musicisti. Il jazz al conservatorio non lo trovo una grande conquista e neppure la frequentazione dei soliti master e scuole di specializzazione in Italia o negli States. Mi pare una filiera da allevamento che porta ad avere artisti tecnicamente ineccepibili, da questo punto di vista molto migliori che in passato, ma spesso ‘belli senz’anima’. Sarò naïf, però mi mancano i jazzisti ruspanti, cresciuti allo stato brado, alla Massimo Urbani per capirci. Questa riflessione mi induce a chiedere: perché a parte i soliti Rava, Bollani o Fresu (non esattamente dei ragazzini) i jazzisti italiani non compaiono mai sul main stage di un festival importante? Come è potuto accadere che da semplice autodidatta Rava sia giunto a suonare alla pari con Barbieri, Lacy e un’infinità di altri nomi di rilievo? Perché Brad Mehldau non ha un batterista italiano?

D Parlaci ora della tua attività di critico e musicologo: ti occupi di nuove sonorità a 360 gradi, perché?

R Ribadendo la difficoltà a riconoscermi nelle categorie da te citate, non ho mai capito perché, stante la quantità indescrivibile di musica meravigliosa che circola e ha circolato nell’universo mondo, ci si debba restringere a uno o pochi generi. Semplicemente, credo mi muova la curiosità verso il non conosciuto. Mi stimola soprattutto quello che non riesco a decifrare, per ignoranza, in modo immediato. Il lato perverso di questo atteggiamento è che, proprio per i fantasmagorici mezzi di conoscenza di cui disponiamo oggi, non si può stare per bene dietro a tutto.

D Cosa distingue l’approccio al jazz ad esempio da quelli verso la world music o la classica contemporanea?

R Ritengo sia importante non avvicinarsi a tali diversi ambiti con dei preconcetti culturali ed essere disposti a mutare le proprie convinzioni. Se hai la fortuna di ritrovarti a parlare, solo per fare pochi esempi, con Derek Bailey, Steve Coleman, Omara Portuondo, Ballaké Sissoko, Rhiannon Giddens, Otello Profazio o Karlheinz Stockhausen si entra in universi affascinanti, ciascuno con le proprie peculiarità, a cui avvicinarsi con il dovuto rispetto.

D Ti sei occupato di musica nell’ex URSS, da cui provengono grandi compositori già all’epoca noti in Occidente. Ma ti sei interessato a quel jazz locale? Se sì perché o cosa hai scoperto?

R Come molti, mi sono interessato al jazz sovietico per il tramite dell’etichetta Leo Records quando mise in circolo numerose registrazioni anni Ottanta di artisti di tutto rispetto, da Sergey Kuryokhin al Ganelin Trio e agli Arkhangelsk. Passato il momento, ho perso i contatti con quella scena, ma non mi pare i jazzisti russi siano riusciti a mettersi in particolare evidenza negli ultimi venticinque anni.

D La musica, al di là dei generi, deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Ogni musicista abita un contesto che lo ha formato e lo influenza, mi sembra inevitabile che a sua volta si ritrovi a esprimere opinioni sulla società e il mondo in cui vive, non necessariamente a parole, anzi. È forse questo il privilegio maggiore di cui godono gli artisti, poter comunicare il proprio pensiero senza bisogno di slogan e conferenze. Peccato che a volte siano i primi a non rendersene conto.

D Come vivi il jazz e le altre musiche in Italia dall’osservatorio di una rivista importante come «Blow Up»?

R Ai nostri giorni, fare parte di «Blow Up» significa fare i conti con decine di link, personali o che il direttore Stefano I. Bianchi gira quotidianamente e amorevolmente alla redazione, per accedere all’ascolto di nuovi dischi. Un flusso ininterrotto che ti fa sembrare al centro di un vortice musicale impazzito, con cui sto imparando bene o male a convivere.

D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Sparare a zero sulle politiche culturali del nostro Paese sarebbe facile, con i pochi soldi rimasti che finiscono spesso per essere drenati da grandi eventi che nulla portano al territorio nel resto dell’anno. Esistono per fortuna realtà, specie in provincia, dove vengono realizzate attività, magari minime ma continuative, di interesse, promosse da associazioni o semplici cittadini. Il vincolo dei finanziamenti e del rapporto con le istituzioni rimane certamente un cappio al collo non indifferente per chi abbia idee intelligenti da far crescere ma non le necessarie ‘amicizie’.

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