Luca Cerchiari

D In tre parole chi è Luca Cerchiari?

R Sono una persona fortunata perché provengo da un milieu familiare artistico e intellettuale (padre Aldo pittore e direttore di enciclopedie, madre Elda celebre storica dell’arte, nonna Ilde pianista classica) e perché della mia passione musicale sono riuscito a fare una professione, oggi anche remunerativa

D Che musica ascoltavi da bambino e da adolescente? E come sei arrivato al jazz?

R Da bambino e adolescente sono stato avviato da mia nonna, capace di dare una lettura anche analitica ai grandi classici (Bach, Chopin, Beethoven), poi ho scoperto Louis Armstrong alla radio (il programma era ‘Bandiera gialla’, con Renzo Arbore), il progressive pop su disco e il jazz contemporaneo e moderno nei concerti e nei festival (Umbria Jazz 1975). In casa, mia madre aveva alcuni 78 giri di Fats Waller, e ricordava di aver ascoltato il Quartetto Cetra nel 1946.

D Sei tra i primi in Italia ad avere fatto della storia del jazz una professione accademica. Com’è avvenuto? Che difficoltà hai incontrato?

R La storia di come la musica afro-americana e la popular music sono entrate, anche in Italia, in Università e in Conservatorio, l’ho vissuta prima da “osservatore partecipante” negli anni Settanta (i primi corsi in Conservatorio di Giorgio Gaslini, la prima cattedra al Dams di Bologna, affidata a Giampiero Cane, Dams nel quale mi laureai, non con lui, in indirizzo musicale). Più che altrove (penso alla Francia e agli Usa, dov’è accaduto sostanzialmente il contrario) ciò è stato il faticosissimo e meritorio frutto di una politica di pressione sulle istituzioni da parte degli nostri esperti in materia. Queste istituzioni erano infatti, e in gran parte sono ancora, fortemente conservative, poco aperte in senso internazionale e sovente persino improntate a un approccio provinciale e a un livello mediocre. Gli Usa avevano vinto due guerre mondiali ma per paradosso, anche se il mondo era permeato di cultura americana, questa faticava molto ad avere un adeguato spazio accademico, non solo in senso musicale, retaggio di un eurocentrismo ‘highbrow’ che oggi si è trasformato in una confusa melassa globalizzante, riflesso di un appiattimento ‘lowbrow’ dei messaggi e della della creatività, pur con tutte le dovute eccezioni. È una situazione ovviamente determinata, da vent’anni, anche dal mutamenti politici e ideologici, e dalla crisi del concetto di welfare.

D Trovi che in Italia oggi vi siano ancora pregiudiziali in Università e Conservatori verso ciò che fino a qualche decennio fa è ritenuta la ‘musica dei negri’?

R Come poi io, Gianfranco Salvatore, Marcello Piras, tu stesso, Luca Bragalini, Vincenzo Martorella, Vincenzo Caporaletti e pochi altri (inclusi i successivi casi di apertura di insegnamenti relativi alla popular music) siamo riusciti ad accedere all’insegnamento di queste materie è stato l’analogo esito di una difficile politica di convincimento e di interazione non solo coi musicologi classici, allora “padroni del vapore”, ma anche con gli altrettanto prevenuti e disinformati etnomusicologi. Oggi la situazione è mutata, ma solo in questo senso: i musicologi classici italiani (altrove la situazione è ben diversa, si vedano ancora la Francia e gli Usa) continuano a odiare e sottoconsiderare la popular music e il jazz, che nemmeno riescono a distinguere, ma sanno che questi generi interessano ai giovani, e quindi “fanno loro comodo” in senso quantitativo, visto il (peraltro riprovevole, e grave) crollo di seguito e conoscenza giovanile della musica eurocolta. Gli etnomusicologi non la conoscono, la odiano o la sopportano, ma in compenso devono giudicarla quanto al reclutamento dei docenti universitari: un’ autentica, gravissima, italica follia. Mi considero fortunato anche perché insegno (Storia della musica pop e jazz) in una Università come lo IULM di Milano, dove inoltre dirigo da undici anni un Master in ‘Editoria e produzione musicale’ ad elevato tasso di placement professionale e con completissimi contenuti musicali, nato anche come trasformazione professionalizzante del piano di studi del Dams bolognese

D In quale ambito ti trovi meglio: critico, professore, musicologo o altro?

R Scrivere mi appassiona, soprattutto scrivere libri, ma il calore e l’interattività mentale ed emotiva dell’insegnamento hanno delle implicazioni per certi versi superiori, accostabili alla performance musicale, anche jazzistica

R Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Certo che la parola ‘jazz’ ha senso. Non ha senso chiedersi se ha ancora senso. Ha ancora senso parlare della letteratura romantica, dello Jugendstil o della tarantella? Mi pare ovvio.

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Esiste certamente un jazz italiano, in senso geoculturale e linguistico. Il jazz è italiano (o polacco, o scandinavo) nella misura in cui sintetizza la ‘langue’ del jazz americano con la tradizione musicale colta ed orale italiana.

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei? 

R Gli americani e afro-americani hanno un approccio diverso in senso corporeo, sociologico e intercomunicativo. Inoltre, i musicisti e i cultori e studiosi non soffrono delle divisioni e conflitti tra generi musicali proprie degli europei

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?

R Certamente, come tutta la musica. Ma ovviamente anche no: è una libera scelta di chi lo propone.

D Quali sono i libro tuoi di cui vai più orgoglioso?

R Direi ‘Eurojazzland'(Northeastern University Press 2012), ‘Miles Davis’ (Feltrinelli 2013), ‘Intorno al jazz’ (Bompiani 2016), ‘Jazz e fascismo’ (Mimesis 2019) e ‘Treemonisha di Scott Joplin’ (Mimesis 2020).

D L’ultimo su Frank Sinatra è finalmente il testo definitivo o ancora qualcosa da scoprire attorno all’uomo e all’artista?

R Il recentissimo ‘Frank Sinatra tra musica e cinema’ per Feltrinelli (ho impiegato tre anni a scriverlo) mi soddisfa; è peraltro l’unico testo italiano in circolazione su “The Voice”. Ma naturalmente si può far sempre meglio, e in tal senso sto preparando un altro volume su Sinatra, col Prof. Gilbert Gigliotti della Connecticut State University, per Cambridge University Press, previsto in uscita nel 2026.Per Feltrinelli uscirà invece un mio volume su George Gershwin.

D Si può leggere il tuo Sinatra come il tentativo di riabilitare definitivamente un musicista troppo spesso dibattuto solo per ragioni extramusicali?

R Il fatto che parlando di Sinatra in Italia-si finisca quasi sempre a toccare i temi della mafia, delle donne o della politica è anche il triste indice della mancanza di cultura musicale che ancora contraddistingue il nostro Paese. Il mio volume ha avuto molte lusinghiere recensioni e segnalazioni sui quotidiani e in radio e tv :ma nessuna che, per paradosso, parlasse del grande contributo di Sinatra alla musica del ventesimo secolo.

D Cosa ne pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R La scena culturale italiana non mi pare differire da quella degli altri Paesi europei o americani (non so abbastanza di quelli africani ed asiatici). C’è di tutto: menti brillanti e ‘capre’, creativi e ‘replicanti’, autori seri e venditori di aria fritta; e persino ‘vu cumprà’ di mode transeunti.

Luca Cerchiari
9 pensiero su “Intervista a Luca Cerchiari, docente e musicologo”
  1. Poco tempo fa avete dato ampio spazio a Gianni Gualberto perché facesse a pezzi Marcello Piras: perché non domandate a Gualberto che cosa pensi di Luca Cerchiari? 🙂

    1. Sono solo diatribe tra intellettuali. Non è una novità che nell’ambito del jazz non vi sia unanimità su talune questioni. Questa idea di usare, però, Gianni Gualberto come testa d’ariete mi sembra alquanto bislacca.

        1. E’ il suo modo di agire, ma generalmente apporta argomentazioni molto forbite, sia pure non sempre condivisibili. Altri che non sono neppure un grammo di Gianni parlano per simpatie personali, magari perché gli ha scalfito l’idolo di turno Mi sembra che sui nostri gruppi lasciamo scrivere qualsiasi cosa a “la qualunque”. Uno come Gianni è un valore aggiunto…

    2. La cosa potrebbe rovesciarsi chiedendo a Piras e Cerchiari, o altri, cosa pensano di Gianni Morelenbaum Gualberto…Ma temo che con queste polemiche tra colleghi non si vada molto avanti. Come nei partiti, le faide interne finiscono a far vincere i concorrenti, vedi il caso recente del Comune di Bari. Il jazz è da sempre stretto tra l’arroganza ‘highbrow’ della musica classica (meglio:del suo ambiente) e l’arroganza dei numeri del mercato di quella pop (meglio:del suo contesto). A queste, come non bastasse, in Italia va aggiunta, in ambito accademico, l’ostilità e l’incompetenza relativa alla musica afro-americana propria della corporazione degli etnomusicologi, che poco o nulla sanno (viva la curiosità intellettuale ed estetica…!) anche di musica pop. Una visione più ampia e collaborativa tra gli esponenti della critica e ricerca sul jazz ne favorirebbe la diffusione e il dialogo con le altre aree musicali e i relativi esponenti dediti a critica e ricerca. Ma l’Italia è letteralmente ammalata di individualismi e solismi, per cui nel nome della polemica interpersonale si finisce a non riuscire mai a formare un’orchestra, col bel risultato che i singoli assoli vengono sistematicamente travolti dalle truppe cammellate degli altri “partiti musicali”, o degli altri “partiti”, socialmente e mediaticamente intesi.

  2. «usare, però, Gianni Gualberto come testa d’ariete»

    Ma… non è precisamente quello che avete fatto voi? Se le idee di Piras sono così pazzesche (anch’io credo che lo siano), “Doppiojazz“ non avrebbe potuto confutarle a nome proprio?
    Comunque non posso, né voglio, insegnarvi come fare la vostra rivista. Se la facessi io, però, dopo aver pubblicato Gianni Gualberto contro Piras, avrei pubblicato, non dico Piras contro Gualberto perché dubito che a Piras interessi parlare di Gualberto, ma almeno la risposta di Piras alle critiche dell‘altro: l’avrei giudicata una misura minima di correttezza. Ma può darsi anche che gliel‘abbiate chiesto e lui non sia stato inclilne.
    Grazie dell‘attenzione

    1. Scusami Gaspare, forse non ti sei accorto, ma Gianni collabora con noi. Ci sono numerosi suoi scritti su Jazz & Jazz e tu forse non hai letto l’articolo che io ho scritto in risposta alla sua prima intervista rilasciata da Piras da Guido Michelone. Piras oggi è inquietante per ciò che sostiene, ovviamente, a suo rischio pericolo.

  3. La cosa potrebbe rovesciarsi chiedendo a Piras e Cerchiari, o altri, cosa pensano di Gianni Morelenbaum Gualberto…Ma temo che con queste polemiche tra colleghi non si vada molto avanti. Come nei partiti, le faide interne finiscono a far vincere i concorrenti, vedi il caso recente del Comune di Bari. Il jazz è da sempre stretto tra l’arroganza ‘highbrow’ della musica classica (meglio:del suo ambiente) e l’arroganza dei numeri del mercato di quella pop (meglio:del suo contesto). A queste, come non bastasse, in Italia va aggiunta, in ambito accademico, l’ostilità e l’incompetenza relativa alla musica afro-americana propria della corporazione degli etnomusicologi, che poco o nulla sanno (viva la curiosità intellettuale ed estetica…!) anche di musica pop. Una visione più ampia e collaborativa tra gli esponenti della critica e ricerca sul jazz ne favorirebbe la diffusione e il dialogo con le altre aree musicali e i relativi esponenti dediti a critica e ricerca. Ma l’Italia è letteralmente ammalata di individualismi e solismi, per cui nel nome della polemica interpersonale si finisce a non riuscire mai a formare un’orchestra, col bel risultato che i singoli assoli vengono sistematicamente travolti dalle truppe cammellate degli altri “partiti musicali”, o degli altri “partiti”, socialmente e mediaticamente intesi.

    1. Io penso che le “lotte intestine” riguardino più interessi personali, che non amore per il jazz. Tutti vogliono avere soldi da spartirsi, e finanziamenti da dilapidare a vantaggio di amici e amici degli amici. Chi ricopre ruoli istituzionali o percepisce stipendi dallo stato, non capirà mai che cosa significhi vivere di musica, difficilmente, “si sporca le mani” andando a vedere che cosa accade “in periferia”, nei piccoli locali o a cercare qualche talento in giro, tutti hanno già un lista ministeriale pronta con i soliti nomi ed altri imposti dalle varie agenzie di “sbigliettamento”. Tutto ciò riguarda anche il pop, il rock, la classica, etc. Mi piacerebbe mettere alla prova molti intellettuali del jazz, o sedicenti tali, – ci sarebbe da ridere – se dovessero operare tirando fuori dalle tasche i loro quattrini. In quanto alle diatribe fra studiosi di jazz, credo che Piras abbia bisogno di aiuto in questo momento di una badante, quanto meno di un sostegno psicologico.. In Messico ci sono molte erbe allucinogene e locali a luci rosse che lui scambia per cicoria, bietola. o biblioteche…

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