Guido MIchelone & Francesco Cataldo Verrina

/ a Cura di Irma Sanders //

Architetto libero professionista, manager, consulente e operatore culturale,Antonio Ribatti è noto negli ambienti jazzistici soprattutto per la creazione dell’Ah Um Jazz Festival che da oltre vent’anni a Milano propone rassegne dalle scelte motivate, organiche, rigorose, tese insomma a valorizzare il jazz locale e quello avanguardista. Appassionato anche di libri e lettura, Ribatte propone ora ai condirettori di Doppio Jazz una riflessione sull’editore e di conseguenza un paio di domande che li coinvolgono in quanto autori di libri sul jazz. Le risposte sono date individualmente senza sapere l’uno dell’altro e perciò ne emerge un quadro assai singolare.

Ribatti. Il settore del libro è la prima industria culturale italiana. Tuttavia, molte sono le voci che lamentano la scarsa attitudine degli italiani alla lettura. Dal punto di vista della produzione si viaggia a gonfie vele! Nel 2022, da una lettura dei dati ISTAT, 1.736 editori hanno pubblicato 86.174 opere librarie a stampa, con una tiratura complessiva di poco più di 198 milioni di copie stampate. Se a questi titoli aggiungiamo poi quelli pubblicati sempre dagli stessi editori esclusivamente in formato e-book, e quelli auto-pubblicati dagli autori stessi, nello stesso anno, si arrivano a contare 102.987 titoli pubblicati. Significa che ogni giorno dell’anno sono stati pubblicati 282 titoli, ovvero 12 l’ora. Da un rapporto AIE (Associazione Italiana editori) risulta che, sempre nel 2022, siano state vendute 112,6 milioni di copie. I dati relativi alla lettura, invece, cambiano da osservatore a osservatore risultando poco attendibili, ma stando così le cose solo il 57% dei libri prodotti trova una sua “casa”. Verrina e Michelone da sempre, voi siete autori particolarmente prolifici avendo all’attivo decine di titoli. Ma in questo contesto, credete che abbia ancora senso, oggi, scrivere libri?

Verrina. Le statistiche non sono esaltanti: si dice anche che un italiano su dieci compri un libro all’anno e spesso non lo legga, ma lo usa a scopo ornamentale. Al netto di tutto ciò, scrivere libri ha molto senso, specie in questo un momento storico in cui la divulgazione dello scibile, a qualunque livello, è frammentaria, incompleta, soprattutto a causa del Web che sembrerebbe offrire molto, gratuitamente, a livello di nozionismo ma ben poco sul piano dell’approfondimento. Scrivere romanzi, poesie o narrativa in genere, è comunque un’esigenza umana inarrestabile, a prescindere dalle congiunture economiche e dalle evoluzioni tecnologiche. La saggistica serve a colmare le lacune di una conoscenza sempre più superficiale e frettolosa.

Michelone. Direi proprio di sì anche se viviamo, soprattutto in Italia, in un contesto tutto sommato ostile o refrattario al libro, benché i media concorrenti (soprattutto la TV, ma anche i social e la stampa) tentino di indorare la pillola parlando di libri o postandone le copertine o invitando certi autori nei programmi à la page. Certo, la sovrapproduzione di titoli al 70% inutili o dannosi non aiuta la cultura del libro che io intendo come un oggetto sacro o meglio qualcosa da leggere anzitutto, ma poi da custodire o preservare esponendolo in bella vista nella parte migliore della proprio abitazione che può essere il salotto o lo studio a seconda che uno lavori o meno con i libri. Se uno a, come il sottoscritto, lo scrittore e/o l’insegnante è logico che abbia la casa piena di libro in ogni angolo della propria abitazione. Ma se uno fa l’operaio o il geometra o il veterinario i manuali del mestiere li tenga pure sul luogo di lavoro, ma abbia una bella libreria in tinello dove esporre i classici – che oggi più che mai vanno letti! – e romanzi e saggi d’attualità e poi enciclopedie o coffee table books a seconda degli interessi. Ognuno può leggere ciò che vuole, ovvio, ma come in ogni alloggio ci sono lavandini con l’acqua calda e fredda o lavatrici e televisori, così non dovrebbe mancare un libro illustrato di storia dell’arte, una guida ai migliori dischi di musica classica, rock, jazz, e ancora atlanti, volumi di fotografia per riscoprire la bellezza anche di sfogliare le pagine di carta, alla faccia della rete gratuita. In soldi spesi per i libri (e i dischi) sono sempre bene spesi!

Ribatti. In particolare, i libri che parlano di cultura musicale e di musicisti, sono ancora d’interesse oggi, tenuto conto che la fruizione della musica è quasi totalmente appannaggio di strumenti digitali?

Verrina. Esistono vai tipi di fruizione musicale: gratuita e opportunistica, di comodo per la facilità di consultazione rispetto ai supporti tradizionali e ludico-evasiva. Il digitale sembra un buon affare per chi non abbia interesse ad approfondire, individuo spesso un po’ avaro poiché non avvezzo ad investire in cultura, e fa specie che tra gli “integrati”, per dirla alla Umberto Eco, ci siano dei vecchi parrucconi. Colui che invece vive la musica su un piano professionale, sia come studioso, divulgatore, musicologo, giornalista, storico o musicista, fa ancora ricorso ai libri; intanto perché il libro, a prescindere dalla sua importanza, è un prodotto finito ed esaustivo su un dato argomento; inoltre, attraverso la bibliografia, rimanda a successivi ed ulteriori approfondimenti in merito a quella specifica materia. Di certo, dalla saggistica su argomenti musicali, impegnati o leggeri che siano, non ci possiamo aspettare i risultati economici di taluni best-seller, ma molti libri vendono ed, in minima parte, hanno un pubblico di nicchia. Piuttosto, bisognerebbe chiedere alle case editrici di essere più selettive e non fare solo catalogo e quantità per prendere le cosiddette provvidenze statali. Nel mio caso, ho deciso di fare l’editore di me stesso, – anche a monte di esperienze negative con piccole case editrici – senza chiedere nulla nessuno o aiuti di Stato, al fine di poter verificare il come, il dove e quanto, nonché trattare di persona con le varie “interfacce” fisiche e virtuali.

Michelone. Devo fare una duplice premessa: da un lato gli e-book sono un mezzo flop; dall’altro il vinile sta tornado in auge, secondo solo alla musica liquida. Si avverte insomma l’esigenza – anche presso le giovani generazioni, benché per ora limitatamente alle élite culturali – di un supporto fisico con forti legami con il passato che è garanzia di un prodotto di qualità anche sotto l’aspetto fisico o materico. Libro cartaceo e disco (LP o CD) possiedono una ritualità di approccio che va totalmente perduta con la lettura o l’ascolto sul web che mortifica anziché esaltare le qualità sensoriali (di tutti gli organi di senso) che invece un libro e un disco promettono e mantengono. Detto questo devo fare anche un altro tipo di ragionamento: in particolare in Italia gli argomenti più diffusi e popolari sono anche quelli che vengono meno letti, tranne forse il caso dei libri di cucina; tutti amano la musica, il cinema, la televisione, il calcio, la moda, ma di libri sulla musica, sul cinema, eccetera se ne vendono molto pochi rispetto agli utenti di tali discipline. Paradossalmente si vendono più libri di politica, di storia, di psicologia di cui la gente spesso dice peste e corna. Poi c’è un’ulteriore discorso sui protagonisti di ciascun argomento: limitandoci al jazz, i jazzisti e i jazzofili che dovrebbero rappresentare i maggiori fruitori di libri sul jazz sono anche quelli che leggono poco sull’argomento: i primi si limitano a suonare, i secondi a collezionare dischi o andare ai concerti; e questa mancanza di cultura per così dire umanistica del jazz alla fine pesa come un macigno sulla preparazione di chi sta al di qua e al di là della musiche che chiamiamo jazz. Io personalmente, per concludere, ma il discorso dovrebbe aprirsi ora, noto preoccupato che jazzisti e jazzofili hanno spesso gravi lacune sulla storia del jazz proprio perché leggono poco. Ed è per questa ragiona che io in direzione ‘ostinata e contraria’ continuo a scrivere libri sul jazz.

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