// di Francesco Cataldo Verrina //

Una delle alchimie più riuscite della storia del jazz moderno fu il sodalizio tra Miles Davis e Gil Evans, due musicisti differenti per provenienza e formazione, i quali trovarono una sorta di compliance, o comunque di sintesi delle diversità, al punto da produrre insieme almeno tre capolavori assoluti, da molti ritenuti non propriamente jazz, sicuramente non in linea con i dettami del bebop allora imperante. Per Miles Davis, Gil rappresentò colui che sapeva intercettare e sviluppare le sue idee, bastava un appunto o addirittura una telefonata; per Gil Evans, Miles era colui, il primo, che non cercava di suonare la tromba come Louis Armstrong, capace di guardare il jazz da tante angolazioni, quindi plasmabile e adattabile alle situazioni più disparate, per quanto imprevedibile ed umorale. Perfino tale caratteristica costituì un valore aggiunto per entrambi. Miles e Gil si erano conosciuti ai tempi di «The Birth Of The Cool» quando, nel 1949 e nel 1950, un gruppo di musicisti, in massima parte di area newyorkese, si era riunito attorno a Gil Evans (la sua casa in quei giorni era un porto di mare) per parlare di musica e del futuro del jazz, soprattutto nel tentativo di trovare inedite soluzioni armoniche e strumentali che potessero aprire al bop nuove strade. Ne scaturirono alcune registrazioni che, qualche anno più tardi, vennero date stampe sotto il marchio del The Miles Davis Nonet.

Il successo premiò subito la combine fra i due talenti, al punto che per un certo periodo entrambi subirono una reciproca dipendenza. La moglie di Evans sosteneva che il marito Gil ne fosse soggiogato e che lasciasse a Miles la possibilità di prendersi quasi tutti i soldi guadagnati dalla loro collaborazione. Il senso pratico delle donne, però, in ambito artistico, è poco rilevante, e Gil giustificava il sodale dicendo: «Miles ne ha bisogno, lui è abituato ad averne tanti, fa una vita dispendiosa». Fatto sta che il motivo del loro legame non fossero solo i soldi, ma una serie di elementi che rendevano compatibili proprio perché antitetici: Miles era guascone, arrogante, insofferente ad ogni minimo contrasto; per contro Evans appariva tranquillo, concreto, studioso, perfino troppo modesto. Gil Evans non aveva un’alta opinione di sé stesso come compositore, per quanto potenzialmente lo fosse. Il canadese era comunque capace di magnificare le altrui idee attraverso un lavoro di ottimizzazione e «ricomposizione». Tale caratteristica fu sottolineata con un’ardita metafora da Max Harrison, il quale disse: «Ciò che Evans poteva fare era ricomporre. Egli incarnava il paradosso di un uomo con un vero potenziale creativo e una grande forza immaginifica, ma che non era capace di produrre un tema originale. Poteva svettare su tutto e far troneggiare sul mondo le querce più robuste, ma gli doveva essere messa in mano una ghianda al fine di innescare la sua immaginazione. A questo punto la capacità inventiva diventava traboccante e Gil trasformava il banale in qualcosa di magico, scoprendo e sviluppando relazioni e passaggi sonori che sembravano avere un carattere completamente diverso rispetto alla proposta originaria, cosicché l’insieme assumeva significati nuovi e più complessi. Che fosse una buona melodia o un banale concept grezzo, la metamorfosi sarebbe stata comunque completa ed a tratti sconcertante». Il carattere di Gil Evans si era forgiato all’interno della Claude Thornhill Orchestra, ensamble piuttosto lungimirante che, rispetto ai moduli espressivi del periodo, aveva sempre avuto un’idea precorritrice e visionaria in relazione alla composizione e agli arrangiamenti.

Miles ammirava molto Evans. «Scrivevo e inviavo a Gil – raccontava il trombettista – i miei appunti per una valutazione. Gil mi diceva che c’erano buone idee ma ingombrate da troppe note. Poi ho imparato abbastanza sulla scrittura tanto da non scrivere o scrivere poco. Ho solo lasciato il compito a Gil. Gli davo uno schema di ciò che avrei voluto e lui lo completava. Potevo persino chiamarlo al telefono e dirgli cosa avessi in mente, e quando vedevo lo spartito era esattamente ciò che averei desiderato. Nessuno tranne Gil poteva pensare per me in quel modo». Del resto Gil Evans aveva visto in Davis qualcosa che altri non possedevano: «Tutti fino a quel momento erano partiti da Louis Armstrong. Forse da qualcun altro, come Roy Eldridge. Dizzy era più vicino a Roy, ma in fondo erano tutti molto simili. Miles amava la tromba ma non gli piaceva la tromba suonata in un certo modo. E quindi la composizione doveva iniziare senza tono, senza alcun suono troppo marcato all’inizio. Ad esempio, in «Now’s the Time», partiva da un tono scheletrico e gradualmente lo riempiva di carne e sangue, pensando ad altri trombettisti che gli piacevano come Clark Terry, Harry James, Freddie Webster. Una sera stava suonando al Village Vanguard e durante l’intervallo gli dissi: Miles, mi è appena venuto in mente. Non so se ci hai mai pensato o no, ma sei la prima persona a cambiare il tono della tromba dai tempi di Louis Armstrong».

In questo «ritratto di famiglia in un interno» s’inserisce anche la figura di George Avakian della Columbia records. Fu Avakian a mettere Miles sotto contratto, così come fu lui a suggerirgli di lavorare con un grande ensemble. Avakian non era il solito produttore, aveva lavorato con John Cage, era interessato alla musica sperimentale e alla fusione tra jazz e musica classica. Lo stesso Avakian, che ammirava a la musica del Miles Davis Nonet, era convinto che il trombettista avesse tutte le carte in regola per rivolgersi ad un pubblico sempre più ampio ed interrazziale. Per farlo ci sarebbe stato bisogno, però, di una grossa orchestra, così Avakian pensò di proporre a Davis il nome di Gil Evans come compositore ed arrangiatore del progetto. Memore della passata e della proficua collaborazione, Miles ne fu subito entusiasta. Purtroppo Avakian, il quale aveva avuto la grande intuizione, lasciò la Columbia solo dopo la prima collaborazione fra i due musicisti per i quali si era tanto battuto, aprendo la strada ad una breve sequenza di album che sono finiti negli annali della musica del Novecento.

Ci sono almeno tre capolavori nati dal sodalizio fra Miles Davis e Gil Evans ad iniziare da «Miles Ahead». Gil in primis elaborò tre composizioni già esistenti: «Springsville» di John Carisi, «Maids Of Cadiz» di Delibes, che Gil aveva già arrangiato per Thornhill ma mai inciso ed una sua composizione, «Blues For Pablo». Tutto il materiale fu completamente smontato e adattato alle circostanze così come “New Rhumba” di Ahmad Jamal , orchestrando la versione in trio originaria per l’ensemble di Davis. Le altre composizioni provenivano dal repertorio di Dave Brubeck, Kurt Weill e J. J. Johnson. Miles firmò solo la title track, «Miles Ahead», ma fu Gil a progettare un costrutto sonoro come una lunga suite senza soluzione di continuità ed a creare sezioni di collegamento tra le varie tracce. L’ altra innovazione di «Miles Ahead» fu l’uso delle sovraincisioni. Questo permise ad Evans di lavorare con i diciannove musicisti a più step, in modo che Davis potesse intervenire successivamente per registrare i suoi contributi. Miles utilizzò un flicorno per adattarsi meglio al suono maturo e rotondo che Evans era riuscito ad ottenere con non poco dispendio di energie e qualche lamentela da parte dei musici sottoposti ad un vero tour de force. In effetti le trame sonore evocate da Evans sembravano cambiare e modificarsi progressivamente. Il risultato fu comunque eccellente.

«Porgy And Bess» fu suggerito da Calvin Lampley, successore di Avakian. All’epoca esistevano un film e uno spettacolo teatrale in cui aveva lavorato anche la compagna di Miles, Frances Taylor, ma il trombettista non fu mai entusiasta del progetto e qualche anno dopo l’abiurò completamente. L’album emanava una sonorità oscura, quasi minacciosa. Ciononostante era il tipo di concept che andava oltre il jazz, quindi gradito adun pubblico più vasto e generalista. La strategia iniziale di George Avakian era stata contemplata: Miles era arrivato dove con il solo bop non sarebbe mai arrivato. «Porgy and Bess» fu il suo album più venduto (centomila copie prima delle ristampe su compact disc) fino all’uscita di «Bitches Brew» , che vendette quattrocentomila copie solo nelle prime settimane. Nell’album sono contenute atmosfere assai mutevoli: la tuba risulta talvolta sovrapposta al basso, o suonata su un coro di tre flauti, di cui uno contralto. I quattro tromboni sparano accordi, flauti e tromboni suonano spesso insieme, le voci interne sono colmate dagli ipertoni emanati dagli ottoni bassi. Miles stesso si muove su più fronti: flicorno aperto, tromba sordina; a volte si unisce all’orchestra per suonare la parte principale. Steve Lacy, che aveva lavorato con Evans disse: «Per Gil non esistevano compartimenti stagno nella musica. Gil dipingeva un arazzo di suoni con i suoi musicisti. Mi sentivo come un colore, un nastro inserito in un grande spettro. Non avevo mai provato prima questa sensazione, e non l’ho mai più provata da allora. È stata un’esperienza unica, essere un filo di colore che s’intreccia ad altri: non c’eri più tu, c’era solo lui».

Nonostante il successo commerciale del disco, la critica oppose una certa resistenza nei confronti dell’azione di Evans e Davis, i quali stavano tentando di forzare le rigide barriere della musica tradizionale e la separazione tra generi e stili. L’opposizione dei media raggiunse il culmine con «Sketches of Spain». Molti giornalisti non sapendo bene come classificare prodotti di quel tipo, scrissero che non si trattava assolutamente di jazz., ma con «Sketches Of Spain» Miles e Gil giunsero all’apice della loro creatività, realizzando il più importante disco non-jazz della storia del jazz moderno. Il parto fu alquanto travagliato e venenro impiegate ben quindici sessioni di tre ore l’una. Evans riuscì a creare un costrutto sonoro elegante ed empatico, ma impregnato dello spirito di una cultura lontana dai sobborghi newyorkesi. Ascoltando «Sketches Of Spain» si ha come l’impressione di camminare per un’elegante via di Madrid, mentre da un teatro escono personaggi eleganti, i quali si muovono con atteggiamento aristocratico: quasi il quadro di una vecchia Europa tardo ottocentesca e vagamente decadente. «Non avevamo intenzione di fare un album spagnolo» – spiegò Gil Evans – «Avevamo intenzione di fare solo il «Concierto de Aranjuez” di Rodrigo». Un amico di Miles gli diede l’album con quel pezzo. Lo portò a New York ed io copiai la musica dal disco perché non c’era la partitura. Mentre lo facevamo, iniziammo ad ascoltare altra musica popolare, quella suonata nei club spagnoli, dove si sentivano i bicchieri che si infrangevano e le chitarre che suonavano, senza prestare attenzione a tutto quel baccano. Così imparammo molto da questa esperienza d’ascolto e alla fine è venuto fuori un disco spagnolo».

Le difficoltà di giungere ad un prodotto finito furono notevoli. Miles Davis ne raccontò gioia e sofferenza: «La cosa più difficile per me è stata suonare la tromba su quelle parti in cui qualcuno avrebbe dovuto cantare, soprattutto quando erano ad-libbed (improvvisati), come la maggior parte dei casi. (…) Ciò che rendeva il tutto davvero difficile da fare era che potevo farlo solo una o due volte. Se fai un pezzo del genere tre o quattro volte, perdi la sensazione che vuoi raggiungere (…) Quello che ho imparato in «Sketches Of Spain» è stato leggere la partitura un paio di volte, ascoltarla un altro paio e poi suonarla. Per me si trattava solo di sapere cos’era, quindi potevo suonarla (…) Dopo aver finito di lavorare al disco, non avevo più nulla dentro di me. Ero svuotato di ogni emozione e non volevo più sentire quel tipo di musica. Gil mi disse: Andiamo a sentire i nastri. Vacci tu, gli risposi».

La collaborazione fra i due continuò ancora ma sotto differenti auspici. Sappiamo tutti quanto Miles fosse umorale ed aggredito costantemente dal desiderio di cambiare. «Quiet Nights», fece muovere di pochissimo l’asticella dell’entusiasmo. Lo stesso Davis pensava che non avrebbe dovuto essere mai pubblicato: era così arrabbiato che si rifiutò di lavorare con il produttore Teo Macero per i quattro anni successivi. Alla Columbia speravano che Gil e Miles potessero tornare a produrre ed incidere insieme, addirittura si parlava di un loro progetto intorno ad un’opera lirica italiana, ma rimasero solo voci corridoio. Oggi sappiamo bene che Davis avrebbe rivoluzionato almeno altre tre volte il vernacolo jazzistico, ma muovendo in tutt’altre direzioni.

Miles Davis & Gil Evans
2 pensiero su “Miles Davis e Gil Evans: storia di una perfetta alchimia creativa”
  1. Grazie, particolari arricchiscono la storia sembra di rivivere e I voglia di suonare .

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