// di Francesco Cataldo Verrina //

Stroncato da un ictus nel 2013 all’età di 57 anni, Mulgrew Miller è stata una delle figure di alto profilo del jazz a cavallo far i due ultimi secoli, sia come musicista che in veste di docente. Le esperienze più significative della sua carriera, ossia la Duke Ellington Orchestra, Woody Shaw ed i Jazz Messengers (con un ruolo di primo piano negli anni ’80 insieme a Donald Harrison e Terence Blanchard), nove anni al soldo di un altro iconico batterista jazz, Tony Williams, (ha suonato in in sei dei suoi album nel classico quintetto che comprendeva Wallace Roney e Billy Pierce), possono aiutare a tratteggiare facilmente il profilo artistico di Mulgrew Miller come solista e band-leader, in particolare indicano la strada maestra per la comprensione di questo piccolo capolavoro discografico sconosciuto alla moltitudine, uscito nel 1992 per RCA-Novus e rapidamente scomparso dai radar. Azzardiamo un’ipotesi fantasiosa: se «Hand in Hand», registrato il 16 e il 18 dicembre del 1992 ai BMG Studios (ex- RCA) di New York, fosse stato pubblicato una trentina di anni prima, certamente sarebbe finito nell’albo d’oro del jazz mondiale. O tempora, o mores! Ogni epoca ha i suoi tormenti e, di certo, gli anni Novanta non sono stati la Mecca per il jazz, almeno per un post-bop di tale raffinatezza ed inventiva.

La calata dei barbari e le commistioni bop-hop-poppish avevano già instillato nelle menti degli ominidi terrestri fertilizzanti sintetici di musiche elettro-robotiche, deteriorato i gangli cerebrali di una certa generazione di jazzofili o sedicenti tali; soprattutto le riviste di settore, già obnubilate dalla fusion decadente, avevano cominciato a vendere al miglior offerente il loro posteriore, ossia la quarta di copertina. Quando «Hand in Hand» arrivo negli scaffali dei negozi e qualche radio comincio a selezionarne degli estratti, la reazione del pubblico e della critica illuminata fu quasi unanime, ed il pensiero iniziò a viaggiare a ritroso nel tempo; soprattutto, quando i più fortunati, che avevano acquistato l’album, non tantissimi in verità, presero a scandagliarne le profondità ed a sondarne i dettagli, ebbero come la piacevole sensazione di trovarsi di fronte ad un nuovo “Blues And The Abstract Truth”, storico album di Oliver Nelson, pubblicato circa trent’anni prima dalla Impulse! nel 1961. Una prima suggestione potrebbe scaturire dal fatto che «Grew’s Tune» produce, a livello immediatamente percettivo, lo stesso effetto di «Stolen Moments». Attenzione, la similitudine è solo nel concept e nell’organizzazione strutturale, tutte le tracce, tranne una, sono originali e firmate da Mulgrew Miller, tutta farina del suo sacco, proveniente da grano di ottima qualità.

L’intrigante atmosfera soulfulness e l’impostazione dell’ensemble trascinarono l’intenditore e l’ascoltatore attento a fare un paragone con certi eventi del passato. «Hand in Hand», poggia la propria architettura sonora su solide basi, mentre Mulgrew Miller si avvale di un line-up stellare: il sassofonista tenore Joe Henderson, il trombettista Eddie Henderson, l’altoista Kenny Garrett, il vibrafonista Steve Nelson, il bassista Christian McBride e il batterista Lewis Nash. Parliamo di un album pieno di sfumature creative, di assoli ben costruiti e fantasiosi, dove gli strumenti emettono un ricchezza espressiva non comune e tonalità calde, a volte dai colori tenui, altre accecanti per esuberanza. Ognuno può scoprire nello stile e negli arrangiamenti di Miller, qualcosa di Duke Ellington, Horace Silver e Gil Evans come l’influenza di McCoy Tyner o certi spunti decisamente monksh. Il riferimento immediato va Oliver Nelson con un gruppo di dimensioni simili, ma «Hand in hand», ha dei tratti che ricordano perfino «Speak Like A Child» e «The Prisoner» di Harbie Hanckok, sono, però, solo flash della memoria e piccole induzioni superficiali, quanto meno dei tributi ideali. In sintesi, la scrittura, l’impostazione narrativa dei singoli brani, il movimento interno tra i vari strumenti, gli arrangiamenti e l’esecuzione non hanno nulla da invidiare a certi classici del passato.

La linea frontale è perfetta per le finalità di Miller, mentre la retroguardia ritmica è di elevato spessore con tasso propulsivo costante e fluidificante. «Hand in Hand» si sostanzia in 8 componimenti originali di Miller con l’aggiunta di «Waltz For Monk», firmata da Donald Brown. Il materiale è assai variegato nella struttura e nella forma, soprattutto è foriero di una logicità e di una congruenza compositiva da manuale, che evidenziano, ulteriormente, le capacità creative del pianista-leader. L’album scorre senza attrito nella sua totalità, disteso su un avvincente tappeto modale, con qualche punta di diamante come la già citata «Grew’s Tune», che da sola vale il prezzo della corsa e «Thinkin’ Out Loud», dove il sax appare davvero in vena di avventure per mondi lontani, attirato nelle spire da un movimento arabescato ed un finale per vibrafono al piccolo trotto. «Leilani’s Leap» è un mid-range dove il dialogo tra vibrafono e pianoforte diventa una moderna case-study, giocata sulla tecnica degli assoli alternati con una serie di vamps intermedi. Sarà difficile per chiunque sottrarsi al gancio melodico della title-track, «Hand in Hand», sostenuta da un groove scalpellante e funkified e da una progressione pianistica insanguata si soul; l’arrivo del contralto di Garrett apre la mente agli ampi scenari di una metropoli in movimento. 1992, anno forse non di molta grazia per il jazz. Nessuno si aspettava un album di questa caratura. Se non eravate allo stato di veglia o eravate già distratti dalla balalaika e dal Festival Patatinen Und Krauti, siete ancora in tempo per recuperare.

Mulgrew Miller

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