// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel silenzio della stampa nazionale e degli organi d’informazione locale che si esaltano e fanno le fusa per Mika, il Branford Marsalis Quartet è approdato all’Arena Santa Giuliana di Perugia a testimoniare la superiorità del jazz rispetto a qualsiasi altra forma di musica ritmica contemporanea. Branford Marsalis non è uno qualunque, fa parte di quella generazione di «giovani leoni» che negli anni Ottanta restituì dignità e decoro alla cultura musicale africano-americana, insieme al più noto ed oramai burocratizzato fratello Wynton Marsalis, direttore del Lincoln Center. Proveniente da una vera dinastia di musicisti, il padre era Ellis Marsalis, a suo tempo collaboratore di Charlie Parker, la madre Dolores una rinomata pianista classica, nonché altri fratelli minori coinvolti nello show business, Branford, nel corso di quattro decenni, ha dimostrato di essere un musicista multitasking e adattivo. Ha suonato il sassofono in varie orchestre sinfoniche, ha guidato la band del programma televisivo notturno preferito dagli americani, è stato in tournée con Sting ed ha realizzato album con chiunque, da Harry Connick Jr ai Grateful Dead, ma la sua dimensione ideale è il quartetto con il quale si è proposto all’Arena di Umbria Jazz e con cui condivide il cammino artistico da oltre un trentennio. Dice Branford: «Non potrei creare questa musica con persone che non conosco».

L’operoso Branford sul palco dimostra di aver trovato la propria dimensione, muovendosi agilmente tra standard e componimenti originali, pur non disdegnando di essere, alla bisogna, la naturale reincarnazione di John Coltrane, una sorta di prolungamento spirituale o, comunque, il degno erede di un jazz moderno legato a quello che viene comunemente chiamato post-coltrane, fatto di continue sperimentazioni e dilatazioni creative. Al netto di ogni valutazione formale, Marsalis e soci sanno come incantare la platea del popolo del jazz. Appropriatosi dello stage del Santa Giuliana ancora caldo, dopo l’introduzione del Brad Mehldau Trio, abile nell’appagare i desideri degli amanti del piano trio fatto di escrescenze cameristiche e di divagazioni classicheggianti, Branford e compagni ristabiliscono per l’occasione i confini del jazz tout-court fissando i paletti di un post-bop avanzato e imbevuto fino al midollo di sangue blues e blackness tra soul, funk, gospel e swing, tutti elementi di sintesi appartenenti alla tradizione afro-americana. In verità il linguaggio del sassofonista a tratti parla altre lingue limitrofe, che sfiorano la contaminazione, ma solo a livello epidermico e di curiosità esplorativa, senza mai rompere gli argini di un flusso sonoro inequivocabilmente jazz nell’accezione più letterale del termine. Il line-up nel suo live-act supera quasi per eccesso di zelo i limiti stilistici mantenendo, al contempo, un’incrollabile integrità creativa. Scriveva tempo fa Downbeat: «Marsalis è sempre un eccezionale narratore, suona con enorme convinzione (…) il quartetto è un modello di esplorazione e di impegno».

Branford spinge la sua musica fino al punto di rottura lasciando che la band operi sul ciglio del burrone e sotto costa prima di ristabilire l’ordine e ricongiungersi al nucleo centrale. Spinto dal batterista Jason Faulkner, il più giovane acquisto, il quartetto si lancia in una serie di brani che sfiorano lo yin e lo yang del jazz moderno: è come se Branford Marsalis riuscisse a trovare il nucleo vitale all’interno ogni melodia mettendola a dura prova negli assoli e nell’interplay con i sodali fino a consumarla e distruggerla, per poi ricostruirla. Il pubblico del jazz incassa ed appare soddisfatto, l’empatia è quasi totale, soprattutto i sostenitori più accaniti sanno che performance di tal fatta siano la norma e che lo score qualitativo del quartetto risulti sistematicamente piuttosto alto. I due veterani danno il loro contributo in maniera quasi telepatica: Eric Revis al basso fornisce l’impeto nel comping ed ornamenti con un walking da manuale, mentre Calderazzo rafforza la componente lirica di ogni composizione attraverso un innato virtuosismo pianistico, innescando gli assoli di sassofono del leader, ricchi di variegati cromatismi ed intense sfumature melodiche. Dal canto suo Justin Faulkner (il «novellino» a bordo del convoglio dal 2009), appare perfettamente integrato in un organico storicamente e stilisticamente inclusivo, di cui ha assorbito rapidamente tutti gli assunti basilari. Il quartetto ha sviluppato negli anni una «mentalità» di gruppo che applica ad ogni concerto con estrema disinvoltura.

A Perugia, finalmente, si respira jazz a pieni polmoni, mentre ll classico formato: sassofono, pianoforte, basso e batteria riporta il pubblico nella dimensione più consona alla tradizione della musica improvvisata, lontana dai lustrini o dai sermoni, dai vincoli d’ incasso e dalle cialtronerie da villaggio turistico. Chi sa godere del jazz capisce che i quattro musicisti sembrano possedere una sorta di somiglianza familiare o, comunque, agiscono da parenti acquisiti. Sebbene la forma espressiva sia piuttosto libera, (non potrebbe essere diversamente) ogni voce strumentale è chiaramente definita e mirata ma, soprattutto, Marsalis e Calderazzo, quasi gemelli monocoriali, mentre i pezzi si susseguono, suonano con un invidiabile rispetto reciproco ed un gioco delle alternanze tra sax tenore, soprano e pianoforte, frutto di un’autentica complicità e conseguenza di una tecnica davvero sbalorditiva. Il modo di suonare del sassofonista è in grado di fondere perfettamente le dinamiche e gli stimoli provenienti dalla platea e di adattarsi all’energia del luogo e del momento. Sia che si tratti di un trascinate assolo che di una morbida ballata, come dicevamo, Calderazzo e Marsalis sul palco esprimono un cameratismo affascinante da osservare, soprattutto durante gli intermezzi più trascinanti delle loro composizioni originali. La notte è giovane ma il tempo passa, mentre Marsalis e compagni, visibilmente divertiti, manipolano abilmente la loro tavolozza sonora per evocare una gamma di emozioni a getto continuo, mostrando notevole generosità nei confronti degli astanti e delle loro reiterate richieste, tra applausi e grida di approvazione, fra stati d’animo e proposte mutevoli per tono e stile. L’eterno giovane leone si conferma come un leader consacrato, ma i suoi sodali sono un ingrediente necessario per mettere in moto un meccanismo così lubrificato e perfetto che aggiunge fibra pregiata al tessuto del jazz contemporaneo ed a Umbria jazz che, altrimenti, rischierebbe di diventare una neverland assediata da guitti da strapazzo, predicatori, guasconi e ballerine. Nonostante tutto, the show must go on!

Branford Marsalis Quartet

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