Un lavoro di sopraffina ricerca sonora, fuori dagli schemi, sintatticamente innovativo, merce rara e pregiata, in cui la risultante finale è superiore alla somma delle singole forze in campo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ci sono vari metodi di percezione della musica, talvolta possono essere totalizzanti, ossia riferibili ad una visione del «tutto», visto e sentito, come un unicum e non come la somma delle singole parti di cui è composto il substrato sonoro; diversamente può essere fruito come la somma di più parti, purché perfettamente fuse in un solo elemento a maglie larghe, permeabile come una membrana citoplasmatica, che ne favorisca una penetrabilità polisensoriale che definiremo olistica, in cui mente, spirito e materia siano perfettamente uniti. Al netto delle congetture filosofiche, il jazz, oggigiorno, tenta di oltrepassare spesso le Colonne d’ercole, di una normale e scontata fruizione – la più diffusa è detta audiotattile – agendo su punti nevralgici della psiche umana, trascinando così l’ascoltatore in una sorta di multidimensionalità polifonica. Tutto ciò può essere implementato sulla scorta di formule compositive ed esecutive non convenzionali, oppure scegliendo una struttura molecolare fluida a volte verticale, altre orizzontale, dove gli elementi improvvisativi si combinano seguendo uno schema asimmetrico. Sicuramente, «Deep Down», il nuovo concept di Donatello D’Attoma, appena pubblicato dalla Filibusta Records, nasce seguendo la scia di un pensiero laterale e non imbrigliato in quelle che sono le normative vigenti del jazz.

Donatello D’Attoma, pianista e compositore, vanta altri quattro dischi come band-leader: «Logos» (2010), «Watchdog» (2014), «Shemà» (2016), «Oneness» (2020) e due, «Kodex» (2020) e «Breakdown» (2022) realizzati a quattro mani con Massimo Bonuccelli. Analizzando tutte le opere precedenti, si avverte nel pianista una ricerca musicale che parte sempre sotto la spinta di un motus interiore che dalle profondità dell’anima sale lentamente in superficie. «Deep Down» non sfugge a tali regole d’ingaggio. Tutte le composizioni, farina del sacco del titolare del progetto, risentono di un cumulo di riflessioni personali: la gioia, l’amore, la delusione, le inquietudini, la paure, il desiderio di un mondo migliore e una vivida preoccupazione per il drammi della civiltà contemporanea per antonomasia, ed è proprio all’immigrazione e alle vittime del Mediterraneo che il disco è dedicato. La narrazione si sviluppa gradualmente come un afflato totalizzante, attraverso un sorgivo orientamento melodico che bypassa agilmente la rigide strutture jazzistiche, ma senza eccessivi sfilacciamenti armonici o fughe verso l’impossibile. Il pianista pugliese può oltremodo contare su un affiatato line-up: Fulvio Sigurtà tromba, Giulio Scianatico contrabbasso e Attila Gyárfás batteria.

Nel modulo compositivo di D’Attoma si intravedono tentativi di destrutturazione del vernacolo jazzistico sulla scorta di due differenti approcci, apparentemente antitetici, ma che diventano progressivamente compensatori completando un modus agendi che tende a far leva su vari punti nevralgici della creatività. Scorrendo le varie tracce dell’album, risulta evidente che in alcuni momenti certe variabili compositive ed esecutive siano più caratterizzate: ad esempio, «To Shahida, una ballata profonda e mineraria che emerge lentamente dal sottosuolo vellicando lo sviluppo di suggestioni molteplici, favorite dal intreccio ritmico-armonico che sembra dapprima decomporsi, per poi riconvergere al nucleo centrale dell’idea. Al contrario, in «Be The Change», composizione avvolta in un’aura quasi cameristica, l’asset narrativo, più canonico nella componente relazionale del line-up, sembra appellarsi a un più equilibrato rapporto fra melodia e sistema accordale; ciò accade perfino nel brano conclusivo, «Exit West», una struttura più solare ed emersiva, giocata su una formula post-bop contemporanea, ma piuttosto diretta e accattivante nel suo contenuto melodico. Diversamente, in altri momenti dell’album, la circolarità contrappuntistica prende il sopravvento e l’apporto dei singoli strumentisti risulta evidente grazie ad un modulo improvvisativo più dilatato, quasi un byplay in tempo reale.

L’opener «Less Than Nothing» non sfugge a queste ultime considerazioni, essendo caratterizzato da una prolusione tematica iniziale, dettata in punta di piedi, con gli strumenti di prima linea, piano e tromba, che accennano a brevi ostinati serviti quasi con la frusta, sferzate sonore che non danno precisi punti di riferimento su come e quando la melodia si rapprenderà in maniera chiara e leggibile; così tutta la struttura si avvinghia su un’asse girevole caratterizzato da un’abrasività pianistica simil-monkiana e da una tromba che vaga in un iperspazio fantatematico. «Distress Call» ne segue le medesime coordinate in maniera concisa e compatta, operando attraverso un soliloquio pianistico che non supera i due minuti, pressoché una camera di decompressione tra «It’s You» e «Blue Way Lullaby», una nenia atipica, elegiaca e piena di presagi, avvolta in un’atmosfera brunita dal registro basso del pianoforte di D’attoma e dalla tromba di Fulvio Sigurtà, sussurrante e ricca di pathos, che sembra condensare i disagi e le paturnie di un’epoca segnata dall’incomunicabilità virtuale e dalla deficienza artificiale. Non è da meno, «Deep Down», la title-track, a firma D’Attoma, una composizione che risucchia l’ascoltatore in un fluttuante vortice polifonico basato su una sinergia espansa priva di un tema, nonché alimentata dal fitto interplay fra tromba e pianoforte. «Deep Down» di Donatello D’Attoma è un lavoro di sopraffina ricerca sonora, sintatticamente innovativo, fuori dagli schemi, merce rara e pregiata in cui la risultante finale è superiore alla somma delle singole forze in campo.

Donatello D’Attoma

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