Federico Capitoni

// di Guido Michelone //

È fresco di stampa per le edizioni Mimesis Presente continuo. Discografia della musica contemporanea di Federico capitoni, docente di Storia della Musica al Conservatorio Ottorino Respighi di Latina, attivo come giornalista via via per Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire, Il Manifesto, nonché saggista e divulgatore; in questa sua nuova opera si parla anche di jazz, ragion per cui è sembrata logica un’intervista, o meglio una lunga chiaccherata.

D Così, a bruciapelo chi è Federico Capitoni?

R Uno che pensa che il lavoro sia una vessazione. Quindi, se bisogna farlo, tanto vale provare a guadagnare con qualcosa che appassiona. Purtroppo non mi interessava fare il calciatore. Mannaggia. La fregatura è che se quello che ci piace non ha molta forza sul mercato possiamo essere bravi e dedicati quanto ci pare, ma non è detto che non incontreremo problemi. Insomma a me piace fare le cose che non pagano facilmente: i libri, la filosofia, la musica, il teatro, scolpire la pietra. Un po’ artista, un po’ intellettuale… La combinazione peggiore. Non sono innamorato dei soldi, per questo non credo li farò.

D Ci racconta ora il primo ricordo che ha della musica, da bambino?

R Non so, mi sembra di rispondere alla domanda sull’inizio dell’universo. Mi pare che la musica abbia sempre fatto parte della mia vita. Però tra i ricordi più netti ho l’ascolto, in auto con mio padre, di alcune audiocassette con i classici del rock, del pop, della canzone italiana. E poi i tanti dischi in casa… Un quarantacinque giri di Vamos a la playa di cui ascoltavo quasi esclusivamente il lato B che conteneva solo la base (mi sembrava che l’arrangiamento fosse più interessante della canzone, poi ho scoperto che spesso è così). E… ecco, questo: ancora mio papà che la domenica mattina – forse mi sveglio così – canta, accompagnandosi con la chitarra, le canzoni romane.

D Quali sono i motivi che l’hanno spinta a occuparsi di musica?

R Mi è sempre piaciuta e fin da piccolo mi è parso di capirci qualcosa. Facevo delle cassette con i pezzi che secondo me bisognava ascoltare e cercavo di imporle a chi conoscevo. Da grande ho pensato che non sarebbe stato male farne un lavoro. Mi dicevano che nessuno mi avrebbe pagato per andare a sentire i concerti. Ma è quello che è successo.

D E in particolare perché ha scelto la musica contemporanea?

R Due ragioni. Una, la più nobile, è di ordine “intellettuale”: mi interessa e – essendo spesso concettuale – stimola molto il pensiero e dunque il discorso su di essa. L’altra è di ordine pratico: se ne incaricano in pochi, sicché c’è meno intasamento e concorrenza. All’inizio mi occupavo di “musica leggera”, però la volevano fare tutti (e io so perché, ma è un altro discorso, che mi renderebbe antipatico peraltro), e allora…

D Le chiedo subito dove oggi si può collocare il jazz rispetto alle altre due espressioni antitetiche, nobile (classica) e plebea (pop) dell’attuale produzione o creatività?

R Non devo certo spiegare io agli esperti di jazz lo spostamento che il “genere” ha avuto dall’ambito popolare a quello più elevato. Da musica da ballo e di intrattenimento, il jazz è diventato molto sofisticato, spesso difficile, in molti casi elitario, anche più della musica “colta”. Gli è rimasto però un aspetto che condivide con il pop: la corporeità, il suo legame col gesto che crea il suono, il contatto viscerale con gli strumenti, un’idea di oralità ove la scrittura è una ricaduta, un mezzo secondario.

D Passiamo al libro: un titolo molto bello, Presente continuo: ce lo vuole spiegare?

R Mi pareva un modo di dare movimento alla nozione “musica contemporanea”, che sembra un genere cristallizzato. Ma il contemporaneo si muove con noi, è sempre presente. In più andava giustificato un passato che solo nella musica può essere ritenuto contemporaneo. Nell’arte figurativa il contemporaneo ha a che vedere con cose prodotte da pochissimi anni a questa parte (alla data di oggi, dopo la pandemia, per intenderci; poi si sposterà in avanti). Il resto è arte moderna. Nella musica si parla di ‘contemporanea’ anche per composizioni e autori della prima metà del secolo scorso! Il che è da un lato assurdo, dall’altro racconta di un’eternità di un’arte – la musica – sempre attuale perché, come sappiamo, essa c’è solo quando la si fa. Se pensiamo che molta musica colta dell’avanguardia novecentesca ha una forma aperta, la si può ritenere estremamente contemporanea perché la si ricrea diversamente ogni volta che la si esegue. Dopo di che c’è un sacco di musica di un secolo fa che suona molto più attuale e avveniristica di molta odierna, e questo significa che l’interrogativo sul senso di quella musica non è esaurito. Finché non si risponde, quella è musica d’oggi.

D Per lei c’era il precedente di cinque anni fa di Canone Boreale; e oggi Presente continuo: un sequel, un approfondimento, un passaggio di testimone o altro ancora?

R Vi deluderò: questo libro è una commissione. Mi è stato chiesto dal curatore della collana, che aveva apprezzato molto il Canone e che voleva qualcosa di simile in termini però discografici. Io non ero convinto all’inizio: mi sembrava di fare un lavoro fotocopia (oltre ad avere dei dubbi sulla tenuta – oggi – della dimensione discografica). Poi mi ha persuaso, e ho pensato che fosse un’occasione se non altro di affrontare quanto fosse rimasto fuori dall’altra pubblicazione (ossia soprattutto la musica recente). Onestamente non avevo previsto la sezione dedicata al Novecento storico, volevo far cominciare la trattazione dal secondo dopoguerra (e mi sembrava comunque roba vecchia), ma ancora il curatore voleva includere i capisaldi della prima metà del secolo. Ho accettato con una certa riluttanza. Si può fare, ok, mi spiace solo che ciò abbia comportato una riduzione dello spazio dedicato alle cose più vicine a noi… Con ciò anticipo le giustificazioni sugli assenti di cui certamente mi verrà chiesto conto.

D Presente continuo inizia con un’intelligente lunga premessa sulle scelte per una discografia di base della musica dei secoli XX e XXI: quali sono le linee-guida e come ci è arrivato?

R Ecco, per spiegarlo dovrei copiare-incollare l’introduzione. I criteri hanno a che fare con la reperibilità sul mercato dei supporti discografici (sebbene pressoché interamente rintracciabili sulle piattaforme streaming) e la maggior varietà possibile di stili e generi, nel tentativo di avere almeno un testimone a rappresentanza di ognuno di essi. In questo il libro somiglia al Canone: non banalmente una playlist, un elenco di cose da ascoltare, bensì musiche che in qualche modo si parlano, così da aiutare il lettore a connettere mondi lontani e a servirsi di un reticolato, storicamente coerente, in cui orientarsi.

D Da quando ha consegnato il testo all’editore a oggi, c’è qualche scelta (autore, disco) di cui va fiero per aver maggiormente contribuito a un’eventuale valorizzazione appunto di qualche musicista o delle loro opere?

R Presuntuoso lo sono, ma non così tanto da andare fiero di una scelta di un disco anziché di un altro. Semmai mi sento in colpa per le esclusioni.

D C’è invece qualcuno o qualcosa di cui oggi (non ieri) prova qualche dubbio (o pentimento) riguardo sempre alle scelte?

R Giustappunto, e ovviamente, sì. Ma non avrebbe senso nominarli, anche perché domani cambierò di nuovo idea.

D Nel libro sono molte le scelte di album ‘classici’ realizzati dal mondo del rock a differenza di quanto succede con il jazz: come spiega questa sorta di ‘esclusione’?

R Non è del tutto vero. Alla fine il numero dei dischi “classici”, o pseudotali, firmati da artisti del pop-rock non arriva alla decina. Il jazz attraversa questo libro molto di più.

D Sempre nel jazz i rapporti con le esperienze colte occidentali, a differenza del rock e del pop, avvengono da sempre, fra continuità e talvolta creazioni di veri e proprio generi come la Third Stream Music, che sembra un po’ la grande assente nel libro. Ci sono ragioni particolari?

R Nel libro ci sono artisti ascrivibili a quella tendenza (Gulda, Kapustin, Zorn, per esempio, e anche qualcun altro). Le ragioni di ogni assenza o trattazione superficiale sono pragmatiche (lo spazio a disposizione), non estetiche.

D Un altro assente è un musicista ‘trasversale’ molto caro ai jazzofili: Giorgio Gaslini. Ritiene che la produzione colta sia inferiore a quella ispirata al sound afroamericano?

R Gaslini, come altri, era previsto. In un primo elenco che avevo stilato c’erano titoli che ho dovuto sacrificare quando mi sono accorto di aver superato il limite della foliazione impostami dall’editore (che comunque sono riuscito a convincere nel concedermi un centinaio di pagine in più). Che dire… Spero in una seconda edizione nella quale inserire le molte decine di esclusi. Tuttavia persino le enciclopedie hanno lacune – più o meno volontarie –, figuriamoci un libro agile e deliberatamente selettivo come questo.

D Tra alcuni studiosi del jazz (anche italiani) oggi c’è come una corsa a trovare o scoprire partiture classiche perlopiù inediti di grandi jazzisti, da James P. Johnson a Duke Ellington, da Eric Dolphy a Charles Mingus? A volte sembra un tentativo di nobilitare artisti che invece hanno dato il meglio di sé con la musica improvvisata audiotattile. Che ne pensa?

R Sono piuttosto d’accordo. Infatti tra questi ho tributato menzione al solo Ellington, proprio per eleggere un rappresentante di un tentativo importante e mirabile ma riuscito – come sapete – solo in parte. Già autori come Jarrett o Corea hanno una forma mentis diversa, più ‘strutturata’.

D Un’ultima domanda: come vede la situazione della musica contemporanea oggi nel più ampio contesto artistico-culturale italiano?

R Certamente non gode di grande considerazione; per molte persone anche di notevole cultura, la maggior parte di quanto scrivo nel libro è assolutamente sconosciuto. E nel resto del mondo non è che vada meglio: la contemporanea è un prodotto residuale, aggirato persino da molti giovani nei conservatori. A ogni modo, non trovo facile avere esatta contezza di quanto sta accadendo, quello che posso fare è una considerazione sullo stato attuale delle cose, che trovo un po’ fermo. Mi sembra che persino nel pop non ci siano novità epocali almeno dall’avvento del rap (e si parla di cinquanta anni fa). La musica colta contemporanea è piuttosto ancorata all’idea di composizione, che forse comincia a soffrire. Alcuni ci provano con la multimedialità ad aggiustare il tiro, ma questa è una scelta che attiene a un’idea di opera d’arte più generale. E anche il sound design mostra la corda. La musica in quanto pura musica (se mai è esistita) vive di più e meglio nelle sue espressioni estemporanee, meno pensate e più agite, che poi sono quelle originarie. Per questo la musica colta è relegata in un angolo e prevale quella performativa, tipica per esempio del pop.

D Ma che agguati possono temere le sonorità contemporanee?

R Uno dei maggiori spauracchi della musica d’oggi, l’intelligenza artificiale – che compone quel che vuole, come vuole –, pare escludere questo aspetto umano di corporeità, di improvvisazione: è un programma. Allora per proteggersi, per evitare che la musica diventi come è – appropriatamente, nel suo caso – il cinema (cioè tutta preparata, polilinguistica e senza errori: lingua morta), magari è il caso di ripristinare un approccio più vivo, fisico, cosa che il jazz conserva, che è tratto distintivo della popular music e di cui la musica colta dovrebbe tornare a impossessarsi (e poi bisognerebbe che fosse attuale, se penso a quanto teatro musicale contemporaneo mette in scena storie vecchie…). Nel libro qualche esempio di tale apertura – di questo ricordo di come la musica è nata – c’è e di solito si tratta delle direzioni più interessanti e futuribili di questa indicibile, un po’ maledetta, musica contemporanea.

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