Massimo Bonelli, di certo un sognatore. Conversazione con un ‘fantasista’ della musica italiana

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Massimo Bonelli

// di Guido Michelone //

D In tre parole chi è Massimo Bonelli?

R Citando Max Gazzè, direi che sono un alchimista, un ingegnere, un fantasista. Di certo un sognatore. Uno che cerca soluzioni possibili a progetti impossibili, con il desiderio costante di trasformare idee visionarie in realtà concrete.

D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?

R Un mangiadischi arancione e un 45 giri di “Johnny Bassotto”. Ricordo me stesso, bambino, in una stanza con pochi giocattoli e un’ossessione per quella canzone: la mettevo su in loop, era la mia finestra sul mondo.

D Come definiresti la tua attività? Critico, produttore, manager, organizzatore di eventi, direttore artistico o tutto insieme o altro ancora?

R Mi piace definirmi appunto un fantasista, perché mi muovo tra le linee del campo cercando varchi, opportunità, nuove traiettorie. Ho vissuto la musica da tutte le prospettive possibili: da musicista, da produttore, da organizzatore. Oggi mi sento un connettore di energie, uno che crea ponti tra artisti, pubblico, idee e visioni. In un’epoca complessa e frammentata provo a imprimere elasticità e uno sguardo trasversale a tutto quello che faccio o che immagino di fare.

D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della canzone italiana dall’altra parte della barricata?

R Questo lo lascerei stabilire agli altri. Quello che posso dire è che, nel mio piccolo, cerco di svolgere un ruolo attivo nel sistema musicale italiano. Provo a incidere, a stimolare, a offrire occasioni. E se questo contribuisce a spostare qualche equilibrio, non può che farmi piacere.

D Per te che senso ha oggi la parola musica?

R La musica è per me, da sempre, il centro di tutto. È la mia bussola emotiva, il mio rifugio, la mia medicina quotidiana. Non è solo un lavoro o una passione: è la lente attraverso cui guardo il mondo.

D E si può parlare di ‘musica italiana’? In che modo si rapporta con la pop music internazionale che conta?

R La musica italiana oggi ha un peso specifico enorme nel nostro mercato. Ha recuperato centralità, soprattutto perché sa parlare alle persone, raccontare storie vicine, condivise. Penso che la musica italiana attuale sia meno influenzata dalle produzioni internazionali rispetto quanto lo fosse in passato. Ha trovato una voce autonoma, una narrativa propria. Questo non significa che sia migliore, ma è certamente più riconoscibile e, a tratti, più autentica. E questo, nel bene e nel male, la rende più autentica che in altre epoche e più radicata nella vita delle persone.

D Molti ormai gridano alla morte di una musica impegnata e/o sperimentale, dal jazz al rock, dal folk alla canzone d’autore: ma esiste ancora ad esempio la politica nella trap o nel rap italiani?

R Sì, esiste. Ma con linguaggi, codici e strumenti diversi. La politica oggi non è più solo quella dei comizi o delle manifestazioni. Si fa politica anche raccontando il disagio, l’alienazione, le periferie, il rifiuto. Anche il provocare è un gesto politico. Molti testi di cantautori e rapper contemporanei affrontano temi forti, a volte in modo spigoloso, ma sempre radicati nel presente. E questo, dal mio punto di vista, è già un impegno.

D Tu da sempre nei tuoi libri scegli un approccio divulgativo, lavorando con piccoli-medi editori. Perché oggi la critica musicale non ha più la visibilità di una volta esempio sui quotidiani dove anziché recensioni appaiono comunicati stampa ‘mascherati’?

R È cambiato il modo in cui la musica arriva al pubblico. Un tempo il giornalista musicale aveva il ruolo di filtro e di guida. Oggi la musica arriva direttamente, attraverso gli algoritmi, i social, le playlist. La critica ha dovuto reinventarsi: non più solo valutazione artistica, ma narrazione, approfondimento, contesto. I giornalisti più interessanti oggi sono quelli che raccontano cosa c’è dietro una canzone, un disco, una scelta. Più interpreti che giudici.

D C’è davvero stata un’età dell’oro della canzone italiana corrispondente agli anni ’60-’70 con le scuole dei cantautori (scuola genovese, romana, lombarda, napoletana, bolognese ecc.) o è solo frutto di una narrazione furbesca?

R Ogni epoca ha avuto i suoi picchi e i suoi vuoti. I suoi grandi artisti e quelli meno ispirati. Guardiamo spesso al passato con nostalgia, perché ci rassicura. Ma la verità è che anche negli anni ’60 e ‘70 c’erano canzoni straordinarie accanto a brani dimenticabili. Oggi è lo stesso. Personalmente credo che il tempo sia l’unico vero critico: solo a distanza di anni possiamo capire cosa resta e cosa evapora.

D Come affronti tu i problemi della musica in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?

R Con spirito pratico. Lavoro progetto per progetto, cercando soluzioni concrete e imparando da ogni errore. Spero sempre che gli artisti alzino l’asticella, che ambiscano a opere più forti, più consapevoli. E io, nel mio ruolo, provo a creare contesti dove questo può accadere. Dove il talento viene messo nelle condizioni di fiorire.

D Cosa pensi tu dell’attuale situazione – governo Meloni – in cui versa la cultura italiana (di cui la canzone ovviamente fa parte da anni)?

R La cultura in Italia, oggi, è fragile. Ma più che un tema politico, è un tema di consapevolezza collettiva. La musica viene spesso trattata come semplice intrattenimento, e raramente riconosciuta per ciò che è davvero: un potente strumento di coesione, memoria e crescita culturale. La musica è empatia, è identità condivisa, è un linguaggio universale che costruisce ponti tra persone e generazioni. Se si sviluppasse una visione più profonda e bipartisan del suo valore e della sua rilevanza sociale, la musica potrebbe contribuire in modo ancora più significativo allo sviluppo culturale ed economico del nostro Paese.

Massimo Bonelli

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