«Lee Morgan. La tromba insanguinata», il libro di Francesco Cataldo Verrina che racconta i dischi e le vicende del trombettista morto a 33 anni

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Francesco Cataldo Verrina

// di Guido Michelone //

D Francesco, perché proprio ora un tuo libro su Lee Morgan?

R Credo che non ci sia un motivo specifico, tipo ricorrenze, celebrazioni o anniversari, solo il desiderio di sfatare alcuni luoghi comuni su un personaggio che tutti conoscono, ma che pochi hanno veramente approfondito, anche se ho covato questa idea per anni

D Partiamo dal titolo: due parole chiave. Ci vuoi spiegare la connessione tra l’una e l’altra.

R Quasi il titolo di un film vero e proprio con tanti colpi si scena, e la vita di Lee Morgan si presterebbe ad un certo tipo di plot narrativa. Un’esistenza vissuta ad alta velocità con tanto di morte cruenta. Pare che Lee fosse morto dissanguato con la tromba accanto, mente i soccorsi tardavano ad arrivare.

D Tu giustamente sostiene la troppa ingerenza di taluni critici sugli aspetti biografici di un jazzman rispetto al suo lavoro artistico (dischi e concerti). Vi sono tuttavia alcuni episodi esistenziali che condizionano pesantemente la musica di questo o quel jazzista. Nel caso di Lee Morgan, oltre alla morte inattesa che tronca la vita di una figura che aveva ancora molto da dire) vi sono altri momenti nel suo cammino che possono aver influito sull’attività creativa?

R Siamo alle solite, in genere si parla degli aspetti biografici con particolari scabrosi, ma si tralascia il contenuto musicale. Tutto ciò è dovuto al gossip spicciolo che ammorba il jazz italiano, in cui alligna e prospera il biopic americano, il quale – per tradizione – salta a pie’ pari il lavoro discografico dei vari musicisti, trattandolo per sommi capi. Anche se la vita vissuta da Morgan ha influito parecchio sulla sua discontinuità discografica e concertistica: Morgan è stato un tossicodipendente fino al giorno della sua tragica fine. Ucciso per gelosia da Helen More, dalla donna che diceva di amarlo e che si spacciava per sua moglie. E questo sarebbe – come dicevo – un buon soggetto per un film. Che cosa avrebbe potuto fare Lee Morgan in futuro? Difficile a dirsi, non avendo la sfera di cristallo. Posiamo solo supporlo. È vero che è morto a 33 anni, ma Charlie Parker è morto a 35, Eric Dolphy a 35 e John Coltrane a 39, ed avevano già detto tutto. In genere i sopravvissuti dell’era bebop, dopo i quaranta hanno campato di rendita, Miles Davis a parte. Sicuramente, l’aver conosciuto Art Blakey influì molto sulla sua vicenda personale; il batterista fu il suo pusher per lungo tempo; per contro, la sua partecipazione ad alcuni dischi epocali dei Jazz Messengers gli ha vidimato un passaporto per le stelle.

D Le storie del jazz spesso ‘liquidano’ Lee Morgan come uno dei tanti cavalli di razza della scuderia Blue Note assieme a Lou Donaldson, Hank Mobley, Jimmy Smith, Ike Quebec, Sonny Clark, Donald Byrd, Kenny Burrell, Andrew Hill, bravi sì, ma non certo in grado di competere con la genialità assoluta di Monk, Rollins, Roach, Davis, Clifford Brown, nello stesso periodo. Verità o menzogna? O falso problema? E per quanto concerne Lee Morgan nello specifico?

R Non sono del tutto d’accordo. Ciò nasce proprio da quanto affermavo prima, specie in Italia, critici e jazzisti hanno un’idea non approfondita di Lee Morgan che ruota in massima parte intorno al successo planetario di “The Sidewinder”. Morgan tecnicamente è stato il più grande trombettista hard bop, nonostante avesse una notevole flessibilità stilistica, basta leggere nel mio libro, o altrove, il nome di tutti gli artisti con cui ha collaborato ed i tanti dischi a cui ha partecipato come sideman. Inoltre, negli ultimi lavori sono tangibili le avvisaglie di un cambiamento in atto.

D Agganciandoci alla precedente domande Lee Morgan rientra appieno nel linguaggio hard bop con successive devianze boogaloo e soul-jazz, tutti stili oggi pienamente rivalutati rispetto a prese di posizioni assai dure (all’inizio anche da parte di LeRoi Jones) rispetto alle novità del free jazz. Ma all’epoca come si poneva Lee Morgan verso questo novità radicali, che qualche altro hardbopper (Freddie Hubbard, lo stesso Rollins) ha ‘frequentato’ per certi periodi?

R Ciò che dici, in parte è vero, ma molte convinzioni nascono sempre dalla non conoscenza di Lee Morgan in maniera approfondita. L’hard bop ed il boogaloo sono stati un vestito alquanto stretto intorno alla figura del trombettista dell’Oklahoma, determinati dall’insistenza di Alfred Lion, patron della Blue Note, che sperava di registrare il follow-up perfetto di “The Sidewinder”. Si consideri inoltre che le migliori performance di Lee Morgan sono contenute in alcuni dischi in cui egli suona insieme a Jackie McLean, Bobby Hutcherson e Joe Henderson, musicisti con il baricentro spostato in avanti. È pacifico che Lee non possa essere considerato al pari dei padri fondatori del bop come Monk, Powell, Parker, Gillespie, agli innovatori come Mingus, Roach, Rollins e Brownie o ai dirottatori come Coltrane o Ornette. Nel jazz la storia la sempre fattò chi “ha cambiato le carte in tavola” e non la tecnica o il virtuosismo di chicchessia. Miles Davis è un caso a parte, mentre Freddie Hubbard è stato solo un gallo di battaglia con molto fiato in gola e pochissime idee. Non ha mai neppure prodotto un successo mondiale come “The Sidewinder”. Clifford Brown era morto anzitempo, Lee Morgan era spesso assente dalla scena per motivi legati alla droga, quindi come si dice: in terra caecorum, beati monocoli. Molti ne hanno approfittato pur non avendo lo stesso talento.

D Entriamo nell’analisi del tuo libro: se un lettore e un ascoltatore volessero sceglie un percorso diverso dal tuo (che è sostanzialmente cronologico), che dischi consiglieresti e in quale ordine?

R Personalmente non sono interessato ai lettori che cercano una playlist ideale o i cento dischi della vita. Queste operazioni, riguardano una forma mentis che appartiene al pop. Fortunatamente, ho uno zoccolo duro di lettori affezionati che mi segue da tempo e che mi ringrazia proprio per la selezione che faccio all’interno dei miei libri che cercano di dare un’idea di completezza dell’artista e non un’azione a sottrarre e semplificare, basata spesso, da chi la fa, su criteri non comprensibili. Nel pop vige l’idea: “disco di successo uguale bello o importante”. Non è così in genere, soprattutto questa regola non è applicabile al jazz, dove i fattori in ballo e le complessità sono molteplici, in considerazione anche del fatto che perfino artisti, morti anzitempo come Morgan, abbiano lasciato ai posteri almeno una quarantina di album. Nel libro, oltre a dare informazioni di carattere, biografico, sociale ed ambientale, ne analizzo una trentina in maniera dettagliata. Non vorrei apparire spocchioso, ma duole dirlo: il jazz non è per tutti, specie per gli ascoltatori della domenica o almeno per quelli che girano con la playlist sul telefonino.

D Benché tra le righe si capisca, vuoi dirci tu, ora, quale può essere il disco Capolavoro da inserire nella lista dei grandi album; e quale invece il 33 più orecchiabile da consigliare al neofita (sempre che le due cose non coincidano?

R In parte ti ho già risposto, non amo attardarmi nelle liste della spesa, Lee Morgan merita di essere ascoltato tutto. Per i poveri di spirito, sotto l’albero di Natale, c’è già “The Sidewinder”, mentre per quanti amano complicarsi la vita, consiglierei come capolavoro assoluto “Search Of A New Land” (parere personale condiviso con la maggior parte dei lettori da cui ricevo feedback di gradimento quasi tutti i giorni), ma non è un disco per tutti, nello specifico non è l’album che i “superficiali” si aspettano da Lee Morgan.

D Le ultimissime registrazioni paiono evidenziare un cambiamento di rotta: è ipotizzabile che anche lui si sarebbe ‘piegato’ alla fusion come hanno fatto Donald Byrd e Cannonball Adderley (e prima di loro ovviamente l’iniziatore Miles Davis). Oppure avrebbe fatto un hard bop elettrificato come il Sonny Rollins degli anni Settanta?

R. Domanda è lecita, ma la risposta è un inutile vaticinio, un po’ come fare l’oroscopo. Durante la presentazioni del libro, ho risposto con un’altra domanda, Intanto chi ci dice che sarebbe realmente cambiato? È pur vero che negli ultimi tre anni, tra un’intossicazione e l’altra, c’era stato qualche timido desiderio di cambiamento, dovuto, però, più ai musicisti con cui collaborava ed ai tempi che stavano mutando. L’epoca in cui è vissuto Lee Morgan è alquanto simile a quella in cui vi fu il passaggio dal cavallo all’automobile come mezzo di locomozione. Il cambiamento sarebbe stato inevitabile. Sono convinto che Lee avrebbe cavalcato le nuove istanze della musica afro-americana come fecero Freddie Hubbard, Donald Byrd, George Benson, Stanley Turrentine ed altri, i quali si avvicinarono al musica soul-funk-dance, difficilmente l’avremmo visto sposare la causa della fusion, metre per il free-jazz sarebbe stato dieci anni in ritardo sulla tabella di marcia.

Francesco Cataldo Verrina

«Lee Morgan. La tromba insanguinata» / Autore: di Francesco Cataldo Verrina / Kriterius Edizioni, 2024

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