The Freestones con «Our Experience – Remembering Jimi Hendrix», viaggio in prima classe sulle ali di un mito (Notami Jazz, 2024)
Un disco realizzato con un valido criterio strumentale ed esecutivo, scevro da sfide impossibili o allucinati virtuosismi fini a se stessi o con il bruciante desiderio di competere con l’artista tributato. Un lavoro a combustione rapida e facilmente metabolizzabile: musicalmente, un viaggio in prima classe sulle ali di un mito.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il tentativo di apparentare Jimi Hendrix con il jazz risale al periodo della svolta elettrica di Miles Davis. In quell’occasione, i maggiorenti di alcune case discografiche, per un attimo, sognarono l’affare del secolo: un disco di Jimi e Miles insieme, ma non se ne face mai nulla. Hendrix morì da lì a poco, ma soprattutto Davis non ne fu mai convito per questioni di «narcisismo». Il trombettista sosteneva che «due prime donne non potessero stare sulla stessa scena». Non c’erano, invece, controindicazioni dal punto di vista musicale. Le canzoni di Jimi Hendrix sono sostanzialmente delle strutture blues distorte da sonorità psichedeliche e da assoli stirati fino all’inverosimile. Qualche anno più tardi, nel 1974, ci provò Gil Evans che, in illo tempore, avrebbe dovuto coordinare il morganatico artistico fra Davis ed Hendrix. «The Gil Evans Orchestra Plays The Music Of Jimi Hendrix» colloca però la musica del chitarrista americano in un contesto eccessivamente ridondante, pastoso e barocco, mentre Hendrix per produrre effetti benefici va calato in una dimensione minimale: un piccolo line-up in grado di distillare un prodotto asciutto, deciso, diretto e completamente avulso da classicismi, penetrando immediatamente il nucleo centrale della musica del chitarrista di Seattle, cosi come hanno osato The Freestones con «Our Experience – Remembering Jimi Hendrix», edito dalla Notami Jazz.
Un’operazione estremamente intelligente che trasporta le musiche di Hendrix in un crossover a metà strada tra post-bop contemporaneo, fusion music e smooth jazz; soprattutto Stefano Conforti trascina il costrutto sonoro sul piano di una narrazione sax-led appoggiandosi, alla bisogna, su soprano, contralto o tenore, mentre il chitarrista Tonino Monachesi, a volte elettrico altre più acustico, ne fa una rilettura assai personale e cum grano salis, evitando il confronto-scontro con siffatta divinità dello strumento a sei corde. L’album presenta sostanzialmente una dimensione duale, dovuta alla diversa mano sugli arrangiamenti dei pezzi del musicista di Seattle, curati proprio da Conforti e Monachesi. Un compito suddiviso a metà, a cui si aggiunge una rilettura di «Purple Haze» ispirata alla cover di David Sanborn e Marcus Miller, riproposta in una magnifica dimensione ricca di funkiness. Il resto dei line-up si completa con Giuseppe Barabucci basso elettrico e contrabbasso, Marco Brandi alla batteria, Marco Canzonetta alla tromba nelle tracce 1,5, 6 e 9 e Antonio Ciccotelli al corno francese sempre nelle tracce 1, 5, 6 e 9.
L’opener «Gipsy Eyes», magnifica creatura del libro dei sogni di Hendrix, viene abilmente confezionata come un hard-bop che ricorda talune escursioni sonore dei Messaggeri di Art Blakey, dove sia Conforti che Monachesi danno un saggio della loro tecnica mentre Barabucci e Brandi, dalla retroguardia, garantiscono un groove serrato ed energivoro che non lascia spazio a divagazioni di sorta. A seguire, «Have you Ever Been» che viene riletta come una felina ballata, intensamente vibrante ed a tinte soulful. «Third Stone For The Sun» segue le medesime coordinate sulle ali del sassofono che diventa l’io-narrante, stuzzicato da brevi battibecchi con la chitarra. In «Angel» le acque si acquietano ed il sassofonista Stefano Conforti espone al mondo le sue innate dopi di autentico balladeer, assecondato da una chitarra che gli fa promesse per l’eternità. «Hey Joe», cavallo di battaglia vincente di Hendrix, diventa nella prima parte, sull’onda lunga del sax di Conforti, una suadente ballata, avvolgente ed emotiva, a cui la chitarra, con un mood alla Wes Montgomery, dà un cambio di passo fino al ritorno in auge del sassofono per un finale quasi trionfalistico. «The Wind Cries Mary» assume le sembianze di un impianto urban-fusion, su cui il sassofono stampa il suo marchio funkified e la chitarra intenta qualche asperità da rock-hero, più alla Rick James che alla Jimi Hendrix. «Little Wing», altro gioiello di casa Hendrix, offre al gruppo l’opportunità di avvicinarsi quasi uno smooth jazz di lusso, suonato con estrema eleganza e mestiere. A suggello dell’album, «Them Chenges», a firma Buddy Miles che, con un attacco a tre fiati, sax, tromba e corno francese, assume la sagoma di un hard bop infittito da potenti scaglie di funk metropolitano, diffondendo tutt’intorno un’aura cinematica da blaxploitation. «Our Experience – Remembering Jimi Hendrix» di The Freestones è un disco realizzato con un valido criterio strumentale ed esecutivo, scevro da sfide impossibili o allucinati virtuosismi fini a se stessi o con il bruciante desiderio di competere con l’artista tributato. Un lavoro a combustione rapida e facilmente metabolizzabile: musicalmente, un viaggio in prima classe sulle ali di un mito.
Francesco Cataldo Verrina profondo conoscitore del Jazz e non solo , sa cogliere magistralmente le intenzioni dei musicisti che gli propongono l’ascolto dei loro progetti e ne sa trarre l’essenza , come se li conoscesse di persona . Grande !
Troppo buono, faccio solo un mestiere che tanti non sanno più fare e che alcuni ritengono troppo impegnativo. Molto più semplice pubblicare i comunicati stampa. Il vostro disco comunque merita: ottimo l’impianto strumentale, azzeccati gli arrangiamenti e coinvolgente l’assetto esecutivo.