Chick Corea And Gary Burton In Concert, Zϋrich, October 28, 1979: un unicum dove il risultato finale supera la somma delle parti in campo

0

Dalla loro interazione emerge un senso di conoscenza reciproca, di introspezione, di interscambio, di empatia e di comunicazione da cuore a cuore che, nota dopo nota, accordo dopo accordo, che travalica il rapporto fra musicisti tecnicamente all’avanguardia.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Sono stato più volte critico nei confronti di molte produzioni ECM, non ho mai amato la deriva anti-afro-americana di Manfred Eicher. Ho sempre considerato ingenerose nei confronti della vera tradizione jazzistica le scelte operate dal patron dell’etichetta tedesca, sia pur dettate dall’esigenza di costruire una propria dimensione sonora, facilmente riconducibile alla musica eurodotta o a talune soluzioni ambient, world-music al limite della new age, sovente giocate più sulla qualità del suono, ad appannaggio di un fitta schiera di audiofili e completisti, che non non su un’effettiva validità artistica, almeno in termini jazzistici.

Il questo come in altri dischi immessi sul mercato, a partire dalla fine degli anni Settanta, le improvvisazioni sono caratterizzate dalla presenza di elementi europei. Ci sono poche frasi blues o bebop evidenti, Corea e Burton optano invece per melodie moderne atte ad alimentare le loro improvvisazioni. Eppure in «Chick Corea And Gary Burton In Concert, Zϋrich, October 28, 1979» c’è qualcosa di coinvolgente. Un magnetismo attrattivo che nasce, in primis, dalla marcata personalità dei protagonisti del live set e poi dal loro sapiente uso strumentale. Il disco è la risultante del solido rapporto tra due maestri del jazz moderno già instaurato e consolidato da molto tempo. Dalla loro interazione emerge un senso di conoscenza reciproca, di introspezione, di interscambio, di empatia e di comunicazione da cuore a cuore che, nota dopo nota, accordo dopo accordo, che travalica il rapporto fra musicisti tecnicamente all’avanguardia. I frutti della loro collaborazione possono essere rintracciati in «Crystal Silence» (ECM, 1972), «Duet» (ECM, 1979). per poi proseguire in «Lyric Suite For Sextet» (ECM, 1983), «Native Sense» (Stretch, 1997), «Like Mind» (Concord, 1998) e «Rendezvous In New York» (Stretch, 2003). Per non parlare delle innumerevoli circostanze in cui, a partire dagli anni Settanta, entrambi si sono ritrovati insieme durante lunghe tournée in tutto il mondo, da cui sono state ricavate numerose registrazioni documentate anche attraverso supporti audiovisivi. Si tenga conto che, tra i vari album citati, cinque hanno vinto un Grammy Award.

La loro esibizione a Zurigo, in Svizzera, nell’autunno del 1979 è stata forse tra le più emozionanti, sebbene poco tempo prima Corea aveva guidato gruppo fusion, i Return To Forever, dove il concetto di strumentazione era ben diverso e votato ad una resa decisamente più spettacolare. Ciononostante, la scelta di un duetto pianoforte e vibrafono, strumenti acustici, per Corea e Burton non rappresentò una limitazione o un ostacolo significativo. Il passaggio dall’elettrico all’acustico, specie per Corea, rappresentò una differente forma espressiva ed una sorta di interregno prima di dar vita, nel 1985, ad un nuovo progetto jazz indirizzato verso la fusione con il rock e chiamato, non a caso, Elektric Band. Entrambi potevano essere considerati pionieri della modernizzazione del vernacolo jazzistico nei rispettivi ambiti di pertinenza. Chick Corea apparteneva alla generazione post-Bill Evans che continuava ad innestare nuove istanze nel pianismo moderno. Soprattutto nell’uso di scale modali dai cromatismi più attuali. Gary Burton era senza dubbio, nelle dinamiche della storia del jazz post-bellico, una forza trainante verso l’innovazione del metallofono, nonché un antesignano nel vibrafono suonato con quattro mallet, metodo con cui riuscì ad ampliare e arricchire la gamma armonica.

L’opener è affidato a «Senor Mouse», srotolato sulla distanza di oltre nove minuti, una vecchia composizione tratta dall’album Return To Forever «Hymn Of The 7th Galaxy». Questa brano era originariamente eseguito in puro stile jazz rock, tuttavia per uno strano paradosso, nella versione in duo, le sfumature originarie non scompaiono del tutto. Tale percezione si deve soprattutto al gioco della mano sinistra di Corea, che limita strettamente e rigorosamente il modello di esecuzione. Inoltre, i sapienti effetti vibrazionali di Burton arricchiscono l’idea di contemporaneità, dando vita a un’atmosfera brillante e scorrevole; nondimeno lo stesso vibrafonista riesce a interiorizzare le implicazioni ispaniche e modali che solcano le melodie di Corea senza difficoltà alcuna – ciò sarà una delle caratteristiche di tutto il set – evidenziando i propri assoli con disinvolta gioiosità. Bud Powell» è una creazione di Corea in onore del leggendario pianista bop, che molto aveva influenzato il suo modulo esecutivo. In questa circostanza i due sodali appaiono più ligi all’idioma jazz con un swing più prominente rispetto alle altre composizioni eseguite. L’omaggio al «vecchio pianista» diventerà in seguito l’asset principale della formazione di Chick Corea di metà anni Novanta, la Tribute To Bud Powell Band, supportata da «giovani leoni» come Joshua Redman, Kenny Garrett e Christian McBride. La seconda facciata si apre con la rivisitazione di «Crystal Silence», dall’omonimo album, divenendo un’indicazione sublime di ciò che due maghi dell’improvvisazione possano fare avendo a disposizione materiale di qualità: raramente la musica improvvisata risulta così coerente e melodica. «Crystal Silence» era sorta di monumento al loro rapporto, oggi nella lista dei classici del jazz moderno. Un componimento lirico e sognante, locupletato da un seducente mood, in cui Burton infittisce notevolmente la vibrante emotività del suo strumento dando vita a un’atmosfera calda e delicata. La medesima atmosfera, sospesa tra incanto e disincanto, fra cielo e terra, fa capolino anche in «Tweak», nonché nell’abbrivio della terza facciata, «I’m Your Pal / Hullo Bolinas», sia pure in maniera più «vibrafonata», dove Corea si limita ad comping leggiadro e carezzevole, aprendo un case-study sui futuri modelli di ambient-music praticati dall’ECM.

Nella lunga «Love Castle», oltre quattordici minuti, Chick offre un saggio delle molteplici sfaccettature del suo eclettico pianismo, fra orde di note zampillanti e tenebrosi riff legati al registro più basso dello strumento. Per contro, non perde mai di vista l’essenzialità melodica che caratterizza appieno anche «Falling Grace» posta all’inizio della quarta facciata del doppio album in vinile, in cui il sodalizio fra i due attanti appare quanto mai sinergico. «Mirror, Mirror» ha le sembianze di un aggraziato valzer, ravvivato da un gioco di botta e risposta da una sponda all’altra. «Song To Gayle» è un componimento dedicato alla moglie e compagna di lunga data di Corea, Gayle Moran. Il pianista scevro dal solito sentimentalismo ruffiano, tipico della ballata jazz tradizionale, passa senza soluzione di continuità da un ambiente soffuso ed intimo ad un motivo più trionfalistico. L’album chiude i battenti con l’energizzante «Endless Trouble, Endless Pleasure», in cui Corea riabilita, anche se in maniera contenuta ed accennata, i suoi trascorsi bebop. Per l’intera durata di «Chick Corea And Gary Burton In Concert, Zϋrich, October 28, 1979» i due compagni d’arme s’incontrano a metà strada ed interagiscono secondo il proprio modello di sviluppo creativo fatto perfino di contrasti, in modo da produrre un substrato sonoro a maglie larghe, fatto di giochi tonali lucidi e raffinati, univoco e mai centrifugo rispetto all’assunto basilare dell’idea iniziale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *